Il tema della giustizia deve essere incluso fra le materie oggetto della revisione costituzionale? Tendenzialmente sì, ha affermato il Pdl a ridosso della condanna penale del suo presidente, Silvio Berlusconi, nel processo Ruby; assolutamente no, ha replicato il Pd, facendo riferimento all’accordo politico intercorso tra le forze della maggioranza governativa e sancito nell’apposito disegno di legge presentato dal governo; solo limitatamente alle questioni strettamente connesse alle riforme già convenute (riguardanti la forma di governo, il bicameralismo e il regionalismo), ha prudentemente concluso il presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, Anna Finocchiaro, così consentendo al ministro per le Riforme, Gaetano Quagliariello, di derubricare il tutto come “tempesta in un bicchier d’acqua”.
Basterebbero le discordanze registrate in questi giorni per comprendere la grave incertezza sostanziale, prima ancora che politica, che segna il discutibilissimo percorso di revisione appena intrapreso.
In effetti, è innegabile che il tema della giustizia sia assolutamente divisivo, stante la diversa prospettiva dimostrata al riguardo dalle forze di governo intenzionate all’opera di riforma costituzionale. Al contempo, tuttavia, è parimenti innegabile che la questione giustizia costituisca il vero “convitato di pietra” del dibattito sulle riforme.
Infatti, se è vero che sono state le indagini di “tangentopoli” a fare implodere la prima Repubblica e se è altrettanto vero che sono state soprattutto le indagini della procura milanese a cadenzare i tempi del ventennio della seconda Repubblica, non può disconoscersi l’incidenza che le azioni giudiziarie hanno esercitato sulla forma di governo effettivamente vigente. Per non dire che è parimenti diffusa nell’opinione pubblica la consapevolezza che le indagini giudiziarie politicamente sensibili abbiano continuamente offerto a giudici e pm un formidabile trampolino di lancio nel circuito mediatico-elettorale, tale da consentire agli stessi di lucrare gli effetti della celebrità ottenuta in via giudiziaria, tramutandola in una candidatura certa e in un seggio vincente. Il tutto, secondo l’inedita dinamica per la quale più l’indagine penale è mediaticamente ghiotta, più diventa corposa la rendita elettorale a disposizione di costoro.
La perversione costituzionale di una tale spirale è divenuta talmente intollerabile, da avere indotto lo stesso presidente Napolitano a contestarne vanamente la reiterazione. In varie occasioni egli ha invitato i magistrati a evitare quelle “condotte che comunque creino indebita confusione di ruoli e fomentino l’ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura”. Ha richiamato il caso in cui “il magistrato si propone per incarichi politici nella sede in cui svolge la sua attività, oppure quando esercita il diritto di critica pubblica senza tenere in pieno conto che la sua posizione accentua i doveri di correttezza espositiva, compostezza, riserbo e sobrietà”.
Di qui il paradossale interrogativo cui è inevitabilmente giunto l’attuale dibattito sulla revisione costituzionale: com’è possibile sottrarre il tema della giustizia dal dibattito sulla forma di governo, posto che il primo ha contribuito a determinare i profili del secondo nel concreto relativo assetto? Il tema della giustizia al momento non può essere affrontato in sede di revisione, in quanto politicamente divisivo per le forze intenzionate a modificare la Costituzione; al contempo, tuttavia, la relativa esclusione da un’eventuale riforma, renderà ogni soluzione irrimediabilmente monca. Basti pensare che nell’attuale sistema il Presidente della Repubblica nomina 5 dei 15 giudici della Corte costituzionale e presiede il Csm; di conseguenza, un rafforzamento dei poteri del primo (nel senso del presidenzialismo o semi-presidenzialismo) dovrebbe accompagnarsi con una diversa configurazione delle modalità di nomina o del funzionamento dei secondi.
Una modifica del modello di «governance» del Paese, insomma, comporta una pari modifica dell’equilibrio fra i poteri costituzionali, con un conseguente nuovo bilanciamento fra quei pesi e contrappesi il cui equilibrio è essenziale per assicurare un corretto funzionamento dell’impianto costituzionale.
Una tale consapevolezza, tuttavia, imporrebbe una lettura critica delle cause riguardanti la fine della prima Repubblica e l’insano permanere della seconda; dovrebbe essere finalizzata a chiarire i limiti storici e sistemici di quanto accaduto, allo scopo di evitarne il ripetersi. Ciò, tuttavia, presupporrebbe un giudizio il più possibile condiviso tra le forze delle «larghe intese» artefici del percorso di revisione costituzionale. Ipotesi, allo stato delle cose, alquanto improbabile.
In assenza di una tale disponibilità, per contro, occorrerebbe lasciare stare i grandi progetti di revisione, i quali, se monchi, sono ineludibilmente e pericolosamente volti al fallimento; piuttosto, abbandonato ogni faraonico programma di trasformazione istituzionale, sarebbe sufficiente concentrarsi su quelle minime e funzionali operazioni di manutenzione costituzionale (federalismo, bicameralismo, costi della politica) indispensabili al Paese per cercare di voltar pagina. E questa volta per davvero.