L’impressione è che il problema del finanziamento pubblico ai partiti si stia avvitando, e subisca un ennesimo rinvio. Anche se una riforma è caldeggiata dal presidente del Consiglio, Enrico Letta, sinora il decreto predisposto dal governo ha raccolto una valanga di emendamenti, oltre centocinquanta. Ci vuole poco a pensare che, seppure il tema sia all’ordine del giorno, molto pubblicizzato, molto sento in questo periodo dall’opinione pubblica, e quindi molto urgente per i rapporti complicati tra società civile e politica, il decreto sul finanziamento passerà una estate travagliata e “molto calda” e, ben che vada, sarà poi affrontato in autunno, con un altro rinvio. Il nodo del finanziamento ai partiti è troppo intricato ed è fonte di contrasti durissimi e anche di molte manovre ricche di ipocrisia e di demagogia. Parla Stelio Mangiameli, costituzionalista.



Professore, che cosa ne pensa di questo decreto, dei canali ipotizzati da Enrico Letta per riformare il finanziamento? In più, con la raffica di emendamenti che sono piovuti sul provvedimento?
Proviamo ad affrontare bene questo tema del finanziamento pubblico alle forze politiche. Personalmente credo che gli italiani non siano aprioristicamente contrari al finanziamento dei partiti e si rendano conto che la politica ha dei costi. Il fatto è che gli italiani si sono anche resi conto che il servizio reso dalla classe politica è inferiore, molto inferiore, rispetto alle aspettative e alle spese che i cittadini devono sostenere. Questo servizio scadente veniva già fornito nell’ultima fase dei partiti della prima repubblica e per questo si arrivò al referendum del 1993, quando si abolì il finanziamento diretto. Ma il fatto è che i politici che sono venuti dopo hanno reso, se fosse stato possibile, un servizio ancora peggiore.



Si potrebbe paragonare questa protesta a quella contro l’attuale pressione fiscale rispetto ai servizi erogati dalla pubblica amministrazione.
In Italia c’è la pressione fiscale più alta d’Europa, ma i servizi non sono proprio in testa. Rispetto al finanziamento ai partiti occorre poi aggiungere che dopo il referendum le cosiddette nuove forze politiche hanno camuffato il finanziamento con contributi, spese elettorali, altre voci di spesa. Sostanzialmente hanno sostituito il vecchio finanziamento in modo ipocrita. Quando poi sono venuti a galla alcuni casi, gli italiani hanno dimostrato tutta la loro insoddisfazione. Si pensi a che cosa devono aver pensato i cittadini dopo il caso Lusi, dopo che alcuni partiti ormai inesistenti prendono ancora contributi. Il pasticcio che è stato fatto giustifica completamente la disillusione degli italiani.



Ma i canoni indicati da Letta nel decreto, che riformerebbe almeno il meccanismo del finanziamento, la convincono?

Un piccolo finanziamento di carattere pubblico si può fare, in fondo rientra nella storia della democrazia europea ed è previsto anche negli Stati Uniti. Facciamo attenzione perà alla questione del 2 per mille. Come avviene questo recupero di risorse per le forze politiche? Indiscriminatamente? Vale a dire: offro il 2 per mille a tutto il sistema politico in blocco o al partito, alla forza politica in cui mi riconosco e voto? Qui il problema diventa complesso e può diventare discriminatorio. Perché se io offro i miei soldi al partito che preferisco (fatto del resto logico e scontato) devo scriverlo pure nella dichiarazione dei redditi? Se non è discriminazione questa, non so che cosa possa esserlo.

A suo parere la strada principale dovrebbe essere il finanziamento fatto dai privati?
Credo che questa sia la strada migliore. Ripeto che non escludo, così come si fa anche negli Stati Uniti, una parte limitata di finanziamento pubblico, che potrebbe coincidere con il momento elettorale. Ma il finanziamento privato mi pare quello più corretto. A una condizione precisa però: che tutto avvenga nella massima trasparenza, sottoscritto, denunciato, pubblicizzato nelle debite forme.

Si può dire che il più fermo oppositore dell’abolizione del finanziamento pubblico sia, in questo momento, Ugo Sposetti, l’amministratore del Partito democratico, e che in fondo interpreti la maggioranza degli umori di quel partito.
Era anche abbastanza prevedibile. Il Pd è la forza politica che ha più sedi, più presenza sul territorio, più apparato, più personale, quindi più costi. Nel momento in cui il Pci andò “in pensione” fu difficile collocare tante persone in altri posti, tra enti locali e cooperative. Ora un problema analogo è probabile che si presenti di nuovo, anche se in forme più ridotte.

(Gianluigi Da Rold)