Mentre il governo si logora nel tentativo, sin qui inconcludente, di eliminare l’Imu sulle prime case e di scongiurare l’aumento di un punto di Iva, Berlusconi – al netto delle eventuali condanne definitive che pendono sul suo capo – procede a passi spediti verso la riorganizzazione del suo partito. Che morirà, per far spazio alla rinascita di Forza Italia. Il Pd pare decisamente più impantanato, condizionato negativamente sia dalle dinamiche interne che dal sostegno al governo. Abbiamo fatto il punto sulla situazione con Paolo Franchi, editorialista del Corriere della Sera.
Cosa ne pensa della rinascita di Forza Italia?
E’ stata un’operazione pressoché obbligata, dettata dal venir meno della giustificazione dell’esistenza del Pdl. L’abbandono di Fini è stato solo uno dei tanti episodi che hanno testimoniato come la fusione a freddo tra i due partiti abbia rappresentato un progetto che non è mai andato in porto e non è mai stato completamente digerito dagli elettori. Preso atto di tutto ciò, Berlusconi tenta di rimettere in campo un soggetto più dinamico e attivo, che eviterà di riproporre le divisioni del passato.
Che peso avrà?
Verosimilmente garantirà a Berlusconi, anche nella prospettiva di una o più condanne definitive, una nutrita pattuglia di parlamentari pronti e difendere i suo interessi. E, a dire il vero, anche qualcosa di più, anche se difficilmente tornerà ad essere forza maggioritaria nel Paese.
Dal punto di vista di Berlusconi, che nesso c’è tra la riorganizzazione del partito e la permanenza al governo?
Berlusconi, rispetto al Pd, si trova in una posizione di vantaggio: può vantarsi di essere il promotore delle larghe intese, presentarsi come l’unico in grado di tenere a bada chi tra i suoi mostra maggiori intemperanze e in più, non avendo incarichi di governo, non deve farsi carico degli eventuali fallimenti; infine, ha le mani libere per ricostruire il suo partito.
Il Pd, invece?
Dalle elezioni in poi è evidente che le maggiori difficoltà sono al suo interno. Si ritrova schiacciato nell’”alternativa del Diavolo”. Qual è il male minore? Dissanguarsi, accettando di tutto, per tenere in vita un governo inviso alla maggioranza dei suoi elettori, o assumersi la responsabilità di staccare la spina sapendo bene quali sfracelli elettorali e politici questo comporterebbe?
In un tale contesto, sembra piuttosto difficile riuscire a organizzare un congresso.
A dire il vero, persino decidere se farlo o no diventa un problema. Mettiamo il caso che il congresso sia vero, e in esso si scontrino visioni e prospettive diverse. Qualunque fosse il candidato vincente, un minuto dopo sarebbe messa in discussione la vita del governo. Anche laddove il vincitore affermasse l’intenzione di mantenere in vita l’esecutivo, questo non sarebbe possibile. Un cambio di segretario del più grande partito della maggioranza destina inevitabilmente la compagine governativa alla caduta. Tanto più questa, che si regge su equilibri altamente precari.
L’abolizione dei finanziamenti pubblici sarà una vicenda altrettanto spinosa?
L’abrogazione dell’attuale meccanismo sarebbe indubbiamente un provvedimento molto popolare. Ma appoggiarla, per i partiti, sarebbe come sostenere con vigore una legge che li sfratta di casa. Va anche detto che passare dal sistema dei rimborsi a piè di lista (sulla base della spesa storica), ad essere l’unico Paese in Europa a non prevedere finanziamenti pubblici alla politica sarebbe piuttosto bizzarro; questo, in sostanza, decreterebbe la fine dei partiti. D’altra parte, essi sono talmente impresentabili, mentre la politica è così improduttiva, che chiedere al Paese di finanziare un’attività del genere risultarebbe decisamente odioso. Insomma, anche in questo caso, siamo di fronte ad un serpente che si mangia la coda.
(Paolo Nessi)