Applicando con rigore la Costituzione, la Corte costituzionale ha fatto giustizia di uno dei più grandi errori compiuti recentemente mediante il ricorso alla decretazione d’urgenza: il cosiddetto “riordino” delle Province. Mediante questa formula si intendeva attuare una riforma complessiva delle Province, modificandone radicalmente la struttura di ente politico direttamente rappresentativo, le funzioni attribuite e le condizioni di formazione e di accorpamento. E ciò sulla base di una lettura sin troppo “estensiva” della competenza statale relativa alla definizione delle funzioni fondamentali delle Province (prevista all’art. 117, comma 2, lett. p) e in palese contraddizione con quella disposizione della Costituzione che, nell’art. 133, comma 1, prevede un apposito procedimento per la creazione di nuove Province e per la modifica di quelle esistenti.
Va segnalato che, innanzi alle critiche subito sollevate da una parte consistente e autorevole della dottrina già nei riguardi del primo decreto legge (il n. 201 del 2011), il Governo Monti aveva perseverato con una successiva disciplina dettata sempre con decreto legge (il n. 95 del 2012). Ma, seppure il Parlamento, nella convulsa fase conclusiva della scorso legislatura, in sede di conversione in legge avesse parzialmente ridotto gli effetti più devastanti del procedimento di riordino, l’esito conclusivo è stato un vero e proprio caos: istituzionale, ordinamentale, politico, normativo e amministrativo.
Gli organi provinciali commissariati o in scadenza non avevano la possibilità di rielezione; le funzioni amministrative attive divenivano oggetto o di riappropriazione regionale o di redistribuzione a favore dei Comuni o di nuovi ambiti di area vasta. Nelle Regioni a statuto speciale, poi, è andato in scena il paradosso: eliminare le province per creare nuovi e talora più numerosi enti intermedi. Insomma, la spinta alla soppressione delle province – curiosamente suggerita dalle sedi europee (probabilmente le più incompetenti a decidere sulla consistenza dei nostri livelli istituzionali) – aveva prodotto, in nome di una garibaldina spending review, uno stato di fatto inconcepibile per uno Stato di diritto.
A tutto ciò ha posto la parola fine la Corte costituzionale con una pronuncia cui, secondo le regole generali, va riconosciuta efficacia retroattiva: insomma, la situazione deve tornare, come nel gioco dell’oca, al punto di partenza. Si dovrà procedere alla rinnovazione degli organi provinciali, si dovrà procedere a rivedere le discipline regionali che ne hanno modificato le funzioni amministrative.
Non occorre adesso soltanto soffermarsi sulle ragioni di un errore cosi grave dal punto di vista costituzionale. Ciò che occorre fare, soprattutto, è chiedersi che cosa vogliamo fare dell’Italia. Dobbiamo auspicare un Paese normale, in cui le riforme di sistema così rilevanti, come quella delle Province, non si improvvisino con decreto-legge, non si concludano a colpi di maxi emendamenti e non si impongano con voti di fiducia giustificati per lo più da vincoli esterni o da ragioni di bilancio.
Soprattutto, sarebbe opportuno che la disfida delle Province – così drammaticamente conclusasi per i fautori della tabula rasa – induca a ragionare con serenità sui costi e sui benefici di una complessiva operazione di riforma.
Se si guarda ai modelli applicati negli altri ordinamenti a noi comparabili, in specie a livello europeo, esiste di norma un livello intermedio di governo della cosa pubblica che esercita funzioni amministrative riconducibili ad aree vaste individuate secondo criteri omogenei. Se si guarda alla nostra storia, e tenuto conto della nostra geografia, la Provincia costituisce il livello ordinamentale strategico per assicurare in condizioni di efficienza servizi pubblici sovracomunali. Per di più, le Province si sono tradizionalmente collegate con l’assetto decentrato delle amministrazioni statali, dando così al ceto politico provinciale un rilievo importante nel cursus honorum all’interno degli enti della rappresentanza politica. Certo, vanno eliminate le superfetazioni che si sono verificate negli anni più recenti, così come vanno chiarite una volta per tutte le funzioni fondamentali delle Province e il ruolo spettante alle Regioni.
Ma voler procedere, come sembra ci si stia orientando nel procedimento di revisione costituzionale che si sta avviando in questa legislatura, a voler cancellare con un tratto di penna la parola “Provincia” dalla Costituzione, per poi consentire alle Regioni di ripristinare nuove e variegate tipologie di enti intermedi, significherebbe compiere un’operazione politica in perdita: il cittadino si accorgerebbe rapidamente del vero significato di tale apparente trasformazione istituzionale, e ne subirebbe immediatamente i costi in termini di incertezza e di spaesamento. Non crescerebbe affatto il consenso nei confronti del ceto politico, ma, al contrario, aumenterebbero la distanza e il senso di frustrazione e di protesta. In definitiva, perdere il livello rappresentativo delle Province sarebbe un costo in termini di democrazia rappresentativa: per quali vantaggi? In nome di quali benefici?
Se proprio volessimo dare un consiglio a chi sta faticosamente intraprendendo la strada delle riforme costituzionali, un punto essenziale da rivedere è proprio il decreto legge. E’ uno strumento che, proprio come dimostratosi in questa occasione, è capace di determinare molti più danni dei presunti benefici che si pretende di ottenere. Perché negli ordinamenti a noi vicini non esistono strumenti comparabili al nostro decreto legge? Certo i Governi stranieri non appaiono più lenti del nostro esecutivo. La vera questione è che il decreto legge, così come si è venuto a determinare nella prassi, consente di eludere il fondamentale principio di responsabilità degli organi titolari dell’indirizzo politico, in nome di una presunta emergenza dietro alla quale ogni modifica normativa è ammessa. La congerie di norme variamente introdotte, derogate, sostituite con ciascun decreto legge provocano continui mutamenti degli indirizzi politico-legislativi di fronte ai quali è sempre più difficile trovare qualcuno capace di orientarsi.
Nessun ostacolo procedurale sinora escogitato – dentro o fuori le Assemblee parlamentari – è riuscito a frenare il ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza, neppure come nel caso delle Province. In questa occasione, per fortuna, si è avuta la possibilità di ricorrere al giudizio della Corte costituzionale che ha consentito di rimediare ad un errore così palese.
Ma, per esempio, che cosa sarebbe accaduto se il Governo Monti avesse accolto il suggerimento di intervenire sulle legge elettorale con decreto legge e se, in seguito, tale provvedimento, impugnato innanzi alla Corte costituzionale, fosse stato annullato da quest’ultima? Se vogliamo essere realmente una democrazia rappresentativa ben funzionante, bisogna restituire al Governo, al Parlamento e al Presidente della Repubblica i propri rispettivi ruoli definiti dalla Costituzione. In questa prospettiva, ricondurre il decreto legge alla “vera” emergenza, e sottrarlo alla “normalità” dell’emergenza, è un passo ineludibile.