Un documento per mettere fine alla “gara grottesca” in cui si tenta di dimostrare di essere il “meno compromesso con quel sistema sempre contestato, ma del quale si apprezzano tutte le comodità”. Ma soprattutto un monito per ricordare che “sarebbe una follia non sostenere lo sforzo di Letta”. Il democratico Francesco Boccia lo scrive in una mozione di sostegno al governo dal titolo “Italia riformista, la sinistra che governa”, il cui testo integrale è stato riportato da La Repubblica. Eccolo di seguito.



Giovani che faticano ad entrare nel mondo del lavoro. Donne e uomini che rischiano, seriamente, di non rientrarvi mai più. Famiglie che non fanno figli perché non hanno protezione, assistenza, sostegno. Anziani senza i servizi adeguati per trascorrere una vecchiaia dignitosa. Un sistema educativo che, in nome di un insano egualitarismo, non punta a valorizzare i suoi cervelli ma li costringe a fuggire. Un sistema industriale privo di una politica nazionale. Un’ingiustizia sociale fatta di piccole e grandi cose che, però, ha una comune origine: la divaricazione, unica al mondo, tra coloro che pagano le tasse (pochi) e coloro che non le pagano (troppi) ma che usufruiscono di tutti quei beni e servizi messi a disposizione da chi, invece, non sfugge al fisco.



E, mentre la crescita è un fantasma, un mercato del lavoro medievale  –  in cui il ruolo dei nuovi servi della gleba è ricoperto dai precari  –  sconta ricatti e veti incrociati da parte di chi si preoccupa di garantire i già garantiti piuttosto che favorire la nascita di nuovi posti di lavoro. Ogni tanto, poi, temi etici affrontati sempre sull’onda dell’esasperazione e della contrapposizione fanno capolino nel fangoso dibattito su un sistema giustizia inadeguato e inefficiente e un sistema elettorale indegno di una democrazia occidentale.

Questa è l’Italia. Questo e molto altro. Un’Italia salvata da Giorgio Napolitano che, nel momento del tracollo politico, istituzionale, finanziario non ha abbandonato la nave ma è rimasto, responsabilmente, a bordo e ha gestito l’emergenza con la saggezza e la lucidità che contraddistingue i veri statisti. Un giorno, sui libri di storia, l’intera nazione lo ringrazierà.



Ora, però, è giunto il momento di lasciarsi alle spalle I e II Repubblica e rifondare “la” Repubblica, senza aggettivi. Seguendo la strada maestra della sua Costituzione ma adeguandola ai tempi che corrono impetuosi. Per questo motivo serve un Partito che sia una casa in grado di ospitare le diverse anime della sinistra, dai socialisti riformisti ai cattolici democratici, ai tanti liberali di sinistra. Un Partito che riparta dall’idea di società e non da tessere e correnti, che abbia il coraggio di porre l’interesse generale in cima alla piramide delle cose da fare. Un Partito che abbia il coraggio di riconoscersi chiaramente nell’impegno del governo Letta, assumendosene anche la responsabilità politica di guidarlo. Impegno, quello di Enrico Letta, che si colloca in uno dei momenti più difficili della storia del nostro Paese, quello del possibile default della Repubblica italiana. Un rischio reale che soltanto la lungimiranza di un padre della Patria, come Giorgio Napolitano, è riuscito a scongiurare, afferrando il timone della nave Italia per condurla in un porto sicuro. Serve un’ITALIA RIFORMISTA. Un Partito Democratico moderno, un movimento di donne e uomini di buona volontà che, depurato da isterismi ideologici e tattiche da bottega, riporti la politica alla dignità dei costituenti. Che fecero l’Italia ma non hanno fatto in tempo a farla diventare adulta.

Il punto, però, è che quel mondo lì, quello dei costituenti, oggi non esiste più. È tutto cambiato, radicalmente, anche se qualcuno, ancora adesso, si ostina a non volerlo capire. E questo cambiamento ha una collocazione, un’identificazione ben precisa: la caduta del muro di Berlino. Da quel momento in poi nulla è stato più come prima. A crollare, in quel giorno di novembre, è stata l’ideologia stessa del totalitarismo. Si è completamente sgretolata, sepolta dalle macerie. È morto il totalitarismo come regime politico. È defunto e seppellito il totalitarismo economico, cioè il dirigismo, comunista e non. Non c’è più il totalitarismo religioso, oppure, come invece accade, il totalitarismo laicista che continua a minare profondamente la nostra società gettandola nel mare del relativismo (facendola, in questo modo, annegare).

Il totalitarismo è un modo di essere e di pensare che non esiste più. Non c’è più nemmeno il totalitarismo del popolo, l’affidarsi a un partito che sia o diventa salvatore della patria. Non può nemmeno più esistere il totalitarismo personalistico che affida a papi, nuovi o vecchi, la risoluzione dei problemi con parole che svaniscono al vento.

Non trova alcun diritto di esistere il totalitarismo giudiziario, né quello etico, né il (spesso falso) moralismo che riempie giornali e salotti della politica. Il totalitarismo è vecchio, è andato. Adesso serve guardare avanti. Serve spalancare le porte al mercato comune delle democrazie facendo circolare libertà, benessere e regolamentazione dei diritti avendo come principale obiettivo non l’asettico sostegno a una società indistinta (o alla società che piace tanto al sociologese post comunista) bensì la crescita personale dell’individuo attraverso un solo strumento operativo: .

Un’equivalenza, però, che nei fatti non sempre è stata rispettata. E, se siamo arrivati a questo punto, di certo qualcosa deve essere andato storto. Chiediamoci, allora, perché? Perché, banalmente, la stagione dei diritti è stata preceduta da quella dei doveri senza la quale, però, ricordava saggiamente Aldo Moro, l’Italia non si salverà. Come non si salverà se non si affronterà, con una nuova etica pubblica, la questione morale posta, come emergenza del Paese, già trent’anni fa dall’altro riferimento politico culturale del Pd, Enrico Berlinguer. Quella dei doveri e dell’etica pubblica è, però, la precondizione per costruire una sinistra moderna, di governo e solida. E non bastano certamente i richiami a due punti di riferimento del nostro passato per interpretare un mondo come quello attuale, profondamente diverso e complesso. In altre parole, oltre a Moro e Berlinguer serve il pensiero della sinistra di oggi, quello che, in Italia, non ha mai attecchito e non si è trasformato in un pensiero di cambiamento, in un pensiero in grado di indicare al Paese un orizzonte di cambiamento. Fino ad oggi ha vinto la sinistra che conserva e ha conservato l’esistente, a volte con richiami di circostanza al passato. La sinistra di governo che abbiamo il dovere di costruire, europea e moderna, deve spazzar via ogni resistenza al cambiamento e diventare il motore della società italiana che guarda al domani. Che fare, quindi? Servono regole, poche ma vere e severe. Allargare la sfera della libertà d’impresa irrigidendo, però, il sistema del “chi sbaglia paga e paga sul serio” creerà, inevitabilmente, una nuova cultura d’impresa moderna, innovativa e realmente democratica. Perché la società è una scultura che si modella come in una procedura teologica di ablatio, cioè togli, togli e togli ciò che non serve e, solo così, riesci a trovare la pienezza dell’immagine.

Questo, però, è anche il momento di prendere coscienza dei nostri errori. È il momento di fare un mea culpa per tutto quello che avremmo potuto fare in questi mesi, in questi anni, e non abbiamo fatto. Un tema su tutti: il conflitto d’interessi di Berlusconi, e non solo. Mesi a discuterne a mezzo stampa senza mai risolverlo, senza mai affrontare il nodo dei confini del rapporto tra politica ed economia e i meccanismi che regolano e disciplinano le concessioni pubbliche. Questo immobilismo ha reso poco credibile un’intera generazione politica che ha preferito girare la testa dall’altra parte. E lo si vede anche nei piccoli-grandi conflitti d’ogni giorno: la parentopoli che infesta gli uffici pubblici, le università, i centri di ricerca, le aziende pubbliche a partire dalla Rai. Una classe di burocrati di Stato che sistema famiglie su famiglie accomunate da cieca fedeltà ideologica condita da un falso consenso programmatico. Sfoltire, sfoltire e ancora sfoltire. Chi si è preso la briga di dirlo, a sinistra?

O ancora, si è spesso parlato di società contendibile. Bene, che fine ha fatto quell’idea di società? Qual è l’università in cui il figlio dell’operaio può diventare dentista o notaio con pari diritti rispetto “al figlio di”? Questa deve essere la nostra sfida, la sfida del riformismo: porre tutti nelle stesse, uguali, identiche condizioni di partenza. Ma questo non lo si ottiene semplicemente rendendo uguali i disuguali. E il “mondo università” ne è l’emblema. Basta dare uno sguardo ai nostri atenei per capire che il discorso è ben più complesso. Il problema non si risolve con il numero chiuso ma solo con una meritocrazia VERA. Solo una selezione basata sulle capacità di ciascuno può consentire al povero di uguagliare il ricco o partire, quanto meno, alla pari. Merito e solidarietà insieme, mai fine a stessi ma sempre al servizio della qualità della vita dell’intera società. La contendibilità è garanzia di democrazia, esattamente come la concorrenza è la garanzia della libertà del mercato e dell’abbassamento dei prezzi con un miglioramento delle prestazioni. Ed è un concetto che vale negli ambiti più disparati. Anche per le politiche dell’immigrazione. Milton Friedman diceva che dovrebbero svilupparsi in modo tale che i nuovi arrivati possano avere accesso ai “salari migliori” e mai divenire “un peso per lo Stato e la società”, altrimenti “non rimarranno volentieri” nel paese ospite e “la povertà sarà infine la ricompensa del loro spostamento”. Ripartiamo da qui, perché una sinistra che non vede la seconda generazione d’immigrati, diventati oggi piccoli imprenditori, artigiani che sgobbano dalla mattina alla sera e pagano le tasse, non sarà mai una sinistra di governo.

Il riformismo, quello vero, quello in cui noi vorremmo riconoscerci, deve inevitabilmente far rima con coraggio. La sfida del domani è evitare di rimanere arroccati su posizioni sterili, difese a oltranza per mere questioni di principio. Anzi, la sfida del domani dovrà giocarsi proprio sulla mediazione stessa sui principi e non sui comportamenti (è bene rimanere ben saldi sulle idee ma accettare, allo stesso tempo, la discussione democratica). Coraggio, oggi, significa comprendere anche che il federalismo è, ormai, un dato di fatto perché è la parte più vitale dell’Europa a volerlo. E per farlo non servono mediazioni al ribasso, serve volgere lo sguardo in avanti, sperimentando formule di decentramento innovativo e non difendendo i fortini dall’assalto degli indiani perché, prima o poi, gli indiani arrivano. Federalismo che non vuol dire giocare la partita del nord contro sud ma attuare politiche che permettano al nord come al sud di valorizzare al massimo le proprie risorse. Vuol dire non lasciare indietro il nostro Mezzogiorno ma spostare lì l’asse della politica economica. Vuol dire che per le regioni meridionali è arrivato il momento di raccordarsi meglio, senza pensare soltanto alle rispettive istanze. Vuol dire smetterla di piangersi addosso e agire. Vuol dire rimettere il Mezzogiorno al centro dell’agenda politica e creare tutti quei presupposti per non costringere i giovani a scappare verso altri lidi, per creare infrastrutture e trasporti degni di tale nome, per riconsiderare il Sud una risorsa e non una zavorra. Ma di federalismo si parla anche in Europa e lì subentra anche un altro significato, quello di  responsabilità, dell’accettazione dei doveri prima dei diritti, perché la costruzione del carattere nazionale significa integrazione verso il nord Europa e non solo appiattimento verso modelli mediterranei da costruire integralmente. Significa, aggancio a quel nord Europa, cuore economico del continente, che l’Italia ha il dovere di fare al più presto proprio con lo straordinario sistema produttivo del nord, da sempre locomotiva industriale del nostro Paese. L’autobiografia di una nazione non è più rinviabile e non è data dagli eroi di turno né da questo ecumenismo sentimentale che fa della settima potenza mondiale una terra senz’anima né identità.

Di questi valori, che per noi dovrebbero essere distintivi, il Pd che cosa dice? Nulla, sembra, di particolarmente rilevante. Tutto il campo dei valori, oggi, è lasciato al caos tra chi propugna la difesa delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, un dato oggettivamente storico e non confessionale, e tutto lo sventolio della vecchia bandiera del laicismo fine a se stesso e del relativismo come approccio ai problemi. Niente di più sbagliato. Chi, oggi, nel Pd osa proporre una discussione su tali problematiche (e per capire quanto queste siano fortemente avvertite dalla popolazione basterebbe farsi un giro per le strade) si sente affibbiare, nel migliore dei casi, l’etichetta di teo-con. Lo Stato è laico, sì, ma la costruzione della cattedrale Europa si è resa storicamente possibile grazie alla realizzazione delle sue cattedrali e, soprattutto, grazie alla difesa, sempre e comunque, del principio basilare di una dottrina basata sulla difesa dell’individuo come persona, come unicum irripetibile. Raccogliamo, quindi, l’esempio di Papa Francesco che, passo dopo passo, sta riuscendo nell’impresa di limare tutti quegli spigoli di un mondo ecclesiastico troppo spesso arroccato su posizioni estreme ma che oggi, grazie alla sua guida, si sta dirigendo verso un orizzonte più moderno e conciliante. Tale da attirare apprezzamento e interesse anche dai laicisti di professione. Perché dobbiamo metterci in testa che non può esserci partito senza principi e non ci può essere nazione senza radici. E chi ha paura del passato ha paura di se stesso.

Quello che manca al PD è proprio il coraggio. Il coraggio di osare, il coraggio di andare oltre al dibattito tra il ritorno al laicismo e l’aprirsi ad una nuova prospettiva che miri al riconoscimento storico delle proprie radici e, contemporaneamente, al rispetto delle sue tradizioni. Si può, invece, essere rispettosi di secoli di civiltà e, contestualmente, difendere e irrobustire lo Stato laico? Riteniamo di sì ma dobbiamo avere il coraggio di dirlo apertamente e affrontare la questione a viso aperto. Perché non si tratta di tornare al mito della nazione, al topos di una supremazia culturale e ideologica ma si tratta di fissare i paletti entro i quali far crescere un partito. Siete laicisti o siete tolleranti? Siete a favore dell’idea di nazione oppure no? Siete a favore dell’individuo come homo oppure tutto va annegato nel mare magnum della cosiddetta società, della quale siamo tutti all’umile servizio? Una forza politica non ha futuro se non ha una visione strategica. E non è del pacchetto-lavoro, del pacchetto-giustizia e simili che stiamo parlando, ma del saper riconoscere i punti fondanti del suo stare insieme.

La cosiddetta New Left nasce già vecchia perché non è riuscita a individuare i suoi nuovi interlocutori ma pastrocchia su temi vecchi e nuovi per tentare di imporli a pezzi di società in libera uscita. Ma non basta riverniciare antichi cliché di sinistra per presentarsi come novità, questo dovrebbe ormai esser chiaro a tutti. Occorre ripartire dai nuovi attori di questa società così profondamente cambiata. E i protagonisti sono loro: i giovani precari senza lavoro e, spesso, senza speranza; le piccole imprese dimenticate a scapito delle grandi aziende; le famiglie, i nuovi immigrati con cui la nazione deve fare i conti per tenere in equilibrio tutti i suoi blocchi. Perché gli operai che in una fase precedente votarono Lega, Forza Italia oggi votano Grillo? Perché c’è un esercito, composto da milioni di persone, che preferisce fare volontariato invece che impegnarsi attivamente in politica? Perché offrire a questi pezzi di società delle alternative che partono dalla difesa dello status quo (dai sindacati, a pezzi interi di politica spesso percepiti come “casta” e non come rappresentanti delle Istituzioni) senza mai una visione, nemmeno minima, del domani? Ed è l’errore che il Pd ha ripetutamente commesso in questi anni e che, adesso, sta pagando a duro prezzo. Il continuo distinguo alla lunga stanca ed è evidente che, proseguendo di questo passo, inaridisce ogni possibilità di fermento e di entusiasmo. Ciò che i nostri contendenti hanno fatto emergere è la volontà, la possibilità di decidere. È questo che cerca l’Italia. È questo che ci chiedono gli italiani. Il nostro Paese ha bisogno di qualcuno che lo prenda per mano, che gli dia prospettive, che rappresenti un orizzonte in avanti. Ma, soprattutto, l’Italia ha bisogno di qualcuno che si prenda la responsabilità, oggi, di decidere. Di capire quali siano le priorità, quali le strade da intraprendere, quali le scelte da compiere. Proprio per questo motivo è necessario utilizzare fino in fondo il “tempo di questo governo” per rifondare questo partito. Il nostro partito. È un’occasione che non possiamo sprecare ma dobbiamo cogliere e sfruttare per ripensarci e per ripensare il PD. Ed è quello che ci distingue da tutte le altri correnti, noi non vogliamo restare immobili, il PD lo ha fatto per fin troppo tempo. Oggi, grazie a questo governo, abbiamo una prospettiva diversa, abbiamo la possibilità di guardare oltre. L’immobilismo rischia di logorarci. Tutti, dall’interno. L’Italia, oggi, rischia di morire di noia. E noi con lei.

Qualcuno ha, addirittura, parlato di un’economia della pigrizia, di un’Italia piatta, pigra, dallo sbadiglio facile. È l’Italia che resiste al nuovo, allergica alla scienza, che non investe, che si nasconde dietro le corporazioni, che non vuole crescere, che fa resistenza passiva. E a far riflettere è il fatto che oggi quest’atteggiamento è proprio di quella fazione che dovrebbe, invece, rappresentare l’innovazione e la volontà di cambiamento, cioè i progressisti. Ma chi sono, oggi, questi progressisti? Chi li rappresenta? Cosa rappresentano? E, soprattutto, dove sono? La sinistra non è più sinistra. E non perché non s’arrocca più sugli slogan degli anni ’60 riproposti in nuove salse da pseudo-campioni del riformismo ma perché non offre più alcuna risposta al cambiamento, al futuro. È la stessa crisi che, in tempi e modi diversi, hanno vissuto i democratici americani. Loro, però, almeno, hanno trovato in Obama un presidente in grado, con fermezza, di dare una scossa.

Noi, invece, siamo diventati una nazione pigra: con alcuni sindacati spesso seduti sulle proprie tessere ma sempre più lontani dalle aziende, con gli imprenditori asserragliati nelle loro associazioni ma spesso fuori dai capannoni. E lontani, sempre più lontani, da quella miriade di imprese innovative che si mettono in gioco, sfidano il futuro e producono valore. Davvero vogliamo continuare a credere alla favola degli operai che preferiscono difendere antiquati riti di contrattazione piuttosto che ricevere qualche centinaia di euro in più in busta paga? Proviamo a sentire la loro risposta. Ma il vero problema, qui, è proprio quello delle classi dirigenti che prima di chiedere uno scatto in avanti ai cittadini dovrebbero dimostrare di essere in grado di scuotersi, loro stessi, dal torpore e offrire entusiasmo, valori, prospettive.

Se non ci diamo una mossa noi, prima degli altri, e cambiamo il nostro approccio alla società non ci sarà più futuro per il futuro. E il presente, così com’è, è destinato a morire. Dobbiamo avere il coraggio di sconfiggere il partito della paura. Non tanto quello che, di tanto in tanto fa riapparire il fantasma del terrorismo ma il partito dei movimenti che si oppongono al nuovo, alle nuove infrastrutture di trasporti ed energia. Questo conservatorismo con una semplice rinfrescata di luoghi comuni della sinistra (la società, l’uguaglianza, il conflitto lavoro-capitale, i diritti dei lavoratori ecc.) ingessa il Paese e non fa crescere il partito riformista, che potrà anche essere minoritario all’inizio, ma avrà, almeno, una carta d’identità reale e non tanti alias per camuffare le proprie anime.

Un aspetto che, spesso, nel cosiddetto panorama politico riformista viene tralasciato è quello legato alla variabile tempo, il ritmo del cambiamento e la delineazione dei suoi contorni. Il tempo è ritmo, il tempo è volontà di farcela, il tempo è anche capacità e competenza. Il tempo ci ha catapultato in una società digitale fatta di strumenti che hanno reso la nostra vita, le nostre azioni più veloci, iperveloci, istantanee. E i nativi digitali, cioè i nostri figli, nati già con l’hi-tech incorporato, non concepiscono il dilatarsi ossessivo – ma democratico – del tempo. C’è il problema del tempo? Sì, assolutamente, e i mezzi d’informazione vivono questa ossessione moderna e si attrezzano in rete. E la politica? Basta un videomessaggio su YouTube? No, di certo. Però è un fatto inoppugnabile che chi ha occupato la rete, politicamente parlando, parte avvantaggiato. Il tam-tam digitale funziona e lo si è visto benissimo nelle ultime elezioni. E funzionerà ancora di più in futuro. È inconcepibile, quindi, pensare e ripensare esclusivamente alle vecchie direzioni e assemblee di partito. Utili al dibattito interno ma, da sole, ormai obsolete. Il nuovo palcoscenico digitale è l’occasione che dobbiamo sfruttare per parlare di tutto. E anche di più. Un luogo per discutere, dibattere, confrontarci. Anche quando si tratta di tematiche spinose che generano scontri accessi e viscerali.

Qualcuno, per dire, s’è mai interessato della Repubblica degli stagisti? Qualcuno sa quante sono le figure atipiche oggi in uffici, fabbriche, servizi? Si parla genericamente di precariato ma la flessibilità va governata, e non lo si può fare solo con gli slogan della “macelleria sociale”, bensì con azioni, opere, idee. Quella del salario d’inserimento è una proposta innovativa perché in quattro parole offre l’orizzonte di un lavoro.

Il Pd, oggi, appare, sempre più spesso, un sinonimo di partito conservatore. Qualsiasi idea nuova diventa un contributo al dibattito – vecchia formula degli anni ’60 – un’elaborazione dialettica, tutto perché il partito non prenda una decisione impegnativa, una scelta netta, una volontà innovatrice. Questa sindrome conservatrice, in realtà, è un abile escamotage per tuffarsi nella svolta a sinistra, nel ritorno al com’eravamo, soffocando ogni sussulto riformista e consentendo la sopravvivenza di una classe dirigente che oggi, diciamoci la verità, non serve più. Se parliamo di una sfida nuova, che senso ha la conservazione dell’esistente e dei protagonisti del tempo che fu?

Non si può vivere né resistere né, soprattutto, crescere in un regolamento di conti perenne, in una dialettica in servizio permanente effettivo su tutto e su tutti. C’è una sorta di gara grottesca, nella sinistra, in questa sinistra, a dimostrare chi è meno compromesso con quel sistema sempre contestato, ma del quale, alla fine, si apprezzano tutte le comodità. Ormai questo moralismo ridicolo, e un po’ penoso, è stato “sgamato” dalla gente che vorrebbe, almeno, la soluzione ai suoi problemi e non l’alluvione di parolismi ad effetto. Ed è tutta una gara tra chi è più fascista o meno fascista, più amico del padronato o della gloriosa classe operaia, in un tiro alla fune quotidiano scandito da una costante smentita di ciò che s’è detto prima con aggiustamenti e bizantinismi esasperanti. E poi le discussioni sui blog, le raccolte di firme, gli appelli alla società civile. Questo non è un nuovo modo di fare politica ma un arroccamento destinato a rimanere minoritario ad aeternum. Una sinistra incapace di spalancare le finestre e prendere una boccata d’aria, sempre alla ricerca di eroi, capitani, martiri, nuovi papi, salvatori della patria senza comprendere che non ci può essere un leader senza programma mentre si può sempre costruire un leader sulla base di un programma. Una classe dirigente imbevuta di questa “vecchiezza” può sopravvivere, e bene, sino alla pensione ma non costruisce nulla, non mette nemmeno un mattone, riesce a malapena a perpetuare una vita dorata per sé, i suoi familiari e i compagni di merenda. Nulla di più.

Non c’è voglia di cambiamento senza un reale impegno nel modificare le regole che stanno alla base della crescita: scuola e università. Tutte le riforme sono a efficacia differita senza nessuna scadenza. E la sinistra non sente mai il bisogno, diciamo anche antropologico, di schierarsi dalla parte dei meritevoli ma piuttosto da quella di chi il posto ce l’ha ed è anche ben pagato. Troppo facile bombardare il governo con i tagli alla ricerca se non si presenta un’alternativa: come fecondare l’innovazione in Italia? Chiaramente non dando tutto a tutti ma classificando la distribuzione dei fondi sulla base del merito e se gli atenei meridionali non ce la fanno perché sono incapaci, beh allora chiudessero i battenti. Questi non sono sentimenti di un riformista deluso né di qualcuno che sta passando dall’altra parte della barricata (almeno a livello di idee) ma l’opinione diffusa in una classe dirigente silenziosa perché abituata a lavorare senza tessere e col cervello libero. L’esperienza scandinava insegna che una spesa pubblica molto modesta ma incentrata sul merito, aiuta a far crescere l’innovazione e quindi la competitività e la produttività delle aziende. Invece di cercare martiri della ricerca, i cervelli in fuga e le solite storie da copertina, un partito serio agisce. Mette giù cinque regole per insegnare all’università, ottenere finanziamenti e mandar via baroni e baronetti difesi e tutelati da tutti, classe dirigente in carica e non. In un enorme calderone in cui chi è davvero meritevole viene soffocato così come la speranza di trovare chi possa garantire loro una cosa molto semplice ma non tanto scontata: pari condizioni di partenza rispetto a quelli più fortunati. È facile schierarsi – a parole – dalla parte dei più deboli ma se poi il cosiddetto sistema non si poggia su pesi e contrappesi che rendono perfetto o accettabile l’equilibrio dei poteri sociali in campo, allora si rivela tutto inutile.

Una forza riformista, che si definisce e si accredita come tale, ha il dovere morale non tanto di difendere i più deboli in linea di principio ma di adoperarsi perché sia premiato il valore e la qualità. Sempre, in ogni ambito. Non perché atto dovuto a tessere o clientele di sorta ma perché meritato. Altrimenti, anche la nuova forza riformista europea rischia di essere esattamente il clone della fase più decadente della vecchia Repubblica, quella che alimentava lo stato di necessità per imporre la clientela, incentivare il “favore” e riscuotere il consenso alla cassa delle elezioni. Il paese reale, quello si alza la mattina, quello che lavora, che produce valore, è stanco di tutto questo. E le ultime consultazioni amministrative sono esemplificative. Ciò che spaventa il popolo di sinistra è il continuo fuggire dal paese normale alla ricerca di un paese delle favole, che non esiste se non nelle fantasie del solito drappello di intellettuali e opinion maker disposti a tutto. C’è, invece, un paese reale, che vota a sinistra e cerca normalità, un paese al quale non piace la storia della cosiddetta seconda repubblica ma nemmeno il continuo ondeggiamento tra voglia di futuro e blindatura del presente. Un paese reale costretto a vedere una sinistra che scimmiotta umori e sondaggi, convinta che l’opinione di chi fa la spesa al mercato sia ancora modificabile con gli escamotage del caso. È una sinistra che non ha ancora capito che per risorgere e diventare grande dovrebbe, semplicemente, recuperare la sua missione che non è quella di difendere chi un lavoro ce l’ha ma di crearlo per chi non ce l’ha. Questa era la visione del socialismo europeo degli inizi del secolo e questa era la visione – più che illuminata – del cattolicesimo democratico divenuto, poi, una burletta grazie agli atteggiamenti stupidi di chi ha tentato di non scontentare la sinistra degli estremi magari vergognandosi anche di dire che, in un Paese come l’Italia, togliere il crocifisso è una solenne bestialità. Questa è la sinistra che il paese reale si aspetta. Il resto sono solo chiacchiere e avventurosi tentativi di mantenersi in vita il più possibile, finché voto non ci separi.

In questi mesi lo abbiamo sentito ripetere spesso: “dopo questa crisi niente sarà più come prima”. Nulla di più vero. E se c’è qualcosa che potrà incarnare al meglio questo mutamento che ha coinvolto tutti i livelli della nostra società è, senza dubbio, l’Europa. Un’Europa che non deve aver paura del cambiamento ma deve esserne il promotore, un’Europa in cui le nuove generazioni devono riuscire a trovare un diverso equilibrio economico, sociale, ambientale. Un’Europa  –  per prendere in prestito le parole di Enrico Letta, il miglior giocatore, oggi, della partita europea  –  “non del rigore ma dei popoli”, un’Europa che deve superare i contenuti della destra di dieci anni fa e farsi portavoce di un nuovo vocabolario che sia proprio della nuova sinistra e superi definitivamente gli anni Novanta.

Questa fragilità del pensiero rende oggi fragile anche il Pd e la sinistra tutta, in balia, spesso, di personaggi in cerca d’autore che tentano di strattonarla da più parti. È l’eclissi della ragione il vero male della sinistra italiana nella quale il Pd non si pone mai come faro ma sempre come barca in mezzo a una tempesta. Perché non basta più dire che gli altri sono brutti e cattivi, oggi bisognerebbe, invece, dire cosa fare e come farlo. E allora, per ottemperare a questa mancanza di risposte concrete, si preferisce nascondersi dietro i totem più disparati, dall’Europa, la panacea di tutti i mali, agli Stati dell’Occidente libero e democratico nei quali, guarda caso, non governa nemmeno un esecutivo di sinistra. Dov’è, quindi, la sinistra europea, verrebbe da chiedere? Attualmente relegata all’angolo della storia dei nostri giorni. Perché ha preferito erigere un nuovo muro di Berlino, quello tra classe dirigente e la gente, quella vera, due destini che dovrebbero incrociarsi e che, invece, viaggiano su binari diametralmente opposti. Forse, non sarebbe del tutto sbagliato un ritorno, seppur con i piedi ben saldi a terra, ad una politica dell’immaginazione che osi, anche e senza paura, perdere qualche consenso nello stupidario mediatico per riconquistare il cittadino quello che continua a vedere il Tg e a fare i conti con stipendi e bollette.

La sinistra deve ricominciare a pensarsi da sé, riscoprendo tutto quello che ha davanti agli occhi e che, da tempo, non riesce più a vedere perché troppo impegnata a guardare solo quello che le fa più comodo. Perché la madre di tutte le autonomie resta sempre l’autonomia di pensiero, solo così si ha la libertà di fare delle scelte, di portarle avanti, di difenderle e, perché no, di governare un Paese. Ma di governarlo da sinistra.

Quello che, invece, oggi rischiamo è il realizzarsi della teoria di un illustre del passato, von Hayek, personaggio che oggi sarebbe stato messo in croce perché destrorso. Mentre i debiti sovrani fanno affondare le nazioni, infatti, torna alla mente la sua lezione clandestina sulla teoria del circolo economico: bilanci nazionali gonfiati artificialmente per mantenere in vita politiche di benessere consumistico prive di solide fondamenta. Ecco, si potrebbe dire la stessa cosa della sinistra. Di questa sinistra che continua a mantenersi artificialmente in vita per potersi, un giorno, anche clonare.

L’Italia riformista, invece, sarà quella in grado, con una sinistra di governo, di superare i vecchi istinti alla conservazione per interpretare al meglio i cambiamenti epocali della nostra società, italiana ed europea.