Agli inizi degli anni 80, poco dopo l’avvio delle riforme, la Cina allora ancora potentemente comunista come ideologia lanciò un programma contro “l’inquinamento spirituale”. Era una risposta conservatrice contro la spinta riformatrice arrivata al Paese con il movimento del “Muro della democrazia” a Pechino (tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80 ci fu un movimento che chiedeva l’avvio di riforme politiche democratiche. Il movimento del “Muro della democrazia” fu represso e si intraprese una riforma contro l’inquinamento spirituale). Cioè, in un momento estremamente critico del Paese, i dirigenti cinesi videro che il problema che affrontavano non era di natura materiale, l’economia o la struttura politica, ma di natura ideale: in che direzione avrebbe dovuto marciare la nazione, cosa c’era di giusto o sbagliato nelle aspettative della gente, potremmo dire oggi a 30 anni di distanza.



La prognosi, la chiusura all’Occidente che rappresentava il nuovo, era errata, come del resto venne provato dalla storia; ma la diagnosi era giusta. Era giusto vedere che il problema profondo del Paese era di natura ideale, non di altro. Gli ideologici, materialisti comunisti cinesi, emersi da decenni di guerra civile e asperrime lotte intestine nel partito, riconobbero questo in una congiuntura profondamente critica della Cina. Lo stesso dovrebbero fare gli italiani oggi.



Il richiamo fatto all’Italia da Giorgio Vittadini, prima in occasione dell’apertura del Meeting di Rimini, e poi alla sua conclusione, è di questa natura. Vittadini con un gesto della mano ha messo da parte le mille polemiche e divisioni sulla riforma elettorale, la crisi economica, le guerre fratricide tra destra e sinistra, gli impazzimenti intorno o contro Berlusconi e ha chiesto, all’inizio del Meeting, che il premier Enrico Letta parlando dell’Europa, etc. parlasse, in  realtà, dell’uomo. Lo stesso ha fatto ieri, mentre impazza il rebus sulle sorti di Berlusconi e quindi del governo, richiamando i politici a evitare le estremizzazioni, e mettere gli interessi di parte dopo il bene comune. Questa è in effetti la centralità della crisi del Paese, e da qui c’è l’inizio della soluzione.



Visto da molto lontano il Meeting dei cattolici di Cl, assai più che sollevare domande su quale sia la lobby prevalente, appare come una tradizione insieme di interesse politico e di visione che trascende le tante questioni pratiche. In questo caso esso rappresenta quindi la piattaforma forse più adatta per cominciare a pensare ai problemi italiani, oltre le tante contingenze spesso contraddittorie. Viste dalla Cina infatti le questioni italiane sono così intricate e piene di nodi da essere impossibili da districare. Ma pensare alle questioni singole dimenticando gli uomini che le hanno create e che in tali questioni vivono diventa non semplicemente sbagliato, ma fittizio, una maschera, una finzione della realtà.

Dall’esterno il problema italiano alla fin fine appare molto semplice: la mancanza di senso di comunità, di interesse comune, di unità. Alla fine della seconda guerra mondiale, in teoria, le divisioni dell’Italia erano di gran lunga superiori a quelle attuali. C’erano due mondi che si confrontavano con le armi in mano, i comunisti e gli anticomunisti erano pronti a ricominciare la guerra subito dopo avere finito quella contro il fascismo. C’erano depositi di armi e uomini addestrati a prenderle in mano da una parte e dall’altra, al primo fischio.

Eppure, in quella situazione, in quelle condizioni, con tali profondissime divisioni, l’Italia fece una Costituzione che univa tutti in meno di due anni. Con i fucili sotto il letto, destra e sinistra non erano però divisi nel cuore, come raccontava la saga di Peppone e don Camillo di Guareschi. I due, in teoria spaccati dall’ideologia, erano profondamenti uniti dai sentimenti, dalla loro umanità, dal loro sentire una profonda comunità di interessi. Interessi comuni verso il loro paese in Emilia, verso l’Italia e verso l’uomo.

È questo che invece manca oggi in Italia. Le divisioni pro o contro Berlusconi, pro o contro l’operato della magistratura, questo o quel reato di corruzione, malaffare, cattiva amministrazione o debolezza di giustizia sono molto meno profonde e radicali di quelle degli anni 50. Eppure oggi, diversamente da allora, il Paese non riesce a trovare un punto di convergenza, un senso di unità che faccia superare i problemi, sulla carta, meno importanti di quelli di 60 anni fa.

Perché ieri sì e oggi no? La risposta forse va cercata proprio in Guareschi. Forse manca quell’attenzione per l’uomo, la pietà per gli altri e per se stessi di cui sono piene le sue pagine, il senso profondo di appartenenza a un sentire comune.

Per questo i politici che si accingono ad un autunno che si attende tra i più difficili della storia italiana recente, dovrebbero meditare attentamente sulla lezione che viene da Rimini. Prima che sia troppo tardi, cioè prima che l’esito delle prossime elezioni tedesche − e non delle eventuali, improbabili, irrilevanti elezioni italiane − segni il punto di non ritorno del povero Belpaese

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