Secondo di tre articoli. Il primo: SCENARIO/ Il giurista: tutto quello che il Pd non ha capito del voto su Berlusconi

Che cosa è l’incandidabilità? La risposta a questa domanda non è stata data con la chiarezza necessaria neppure dalla Corte costituzionale, che nelle sue pronunce ha preferito sottolineare l’utilità dello strumento rispetto alla sua costituzionalità.



Bisogna considerare che storicamente la legislazione elettorale, la quale ha un rango materialmente costituzionale, disciplinava l’ineleggibilità e l’incompatibilità, ma non conosceva la categoria dell’incandidabilità. Lo stesso computer, quando ancor oggi si scrive questa parola, la segna in rosso, in quanto la disconosce come parte del vocabolario italiano. L’incandidabilità ha fatto il suo ingresso nella legislazione elettorale nel 1992 (con la legge n. 16, che modificava l’art. 15 della legge n. 55 del 1990 sulla prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale) per fare da contrasto all’infiltrazione mafiosa negli organi elettivi delle amministrazioni locali e regionali.



La sua ratio è stata di escludere la candidatura di soggetti che erano stati condannati per determinati reati come l’associazione mafiosa, il traffico di droga e di armi; oppure coloro che erano stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione (peculato, malversazione, concussione, corruzione, abuso ecc.). Il meccanismo istituzionale congegnato era (ed è) che i candidati alle cariche locali e regionali avrebbero dovuto dare, nell’ambito della dichiarazione di accettazione della candidatura, una attestazione di non essere in una delle posizioni per cui la legge escludeva la possibilità della candidatura e che, ove si fosse riscontrata una delle dette cause gli organi amministrativi, ma composti da magistrati, preposti alle elezioni avrebbero potuto eliminare “i nomi dei candidati a carico dei quali (venisse) accertata la sussistenza di alcuna delle condizioni previste dal comma 1 dell’articolo 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55”.



Non so se nel Parlamento del 1992 non vi fossero anche dei mafiosi, o dei trafficanti di droga e di armi, ma certamente vi erano così tanti inquisiti che qualcuno cominciò a riunirli alle 7 del mattino per discutere sul da farsi. Fatto sta che l’incandidabilità si era arrestata davanti alle porte di Montecitorio e di Palazzo Madama. Vi era per questa limitazione una ragione di opportunità, oppure una ragione di carattere costituzionale? Questa è la domanda che si deve porre anche rispetto al “decreto Severino”, che invece ha esteso l’incandidabilità a deputati e senatori.

La questione della sua retroattività, o meno, è una questione da legulei, per la quale non è il caso di insistere molto e di arrampicarsi sugli specchi. Così com’è scritto il decreto è affetto da quella che tecnicamente può definirsi “parziale retroattività”. Senza entrare in particolari un po’ complicati, può dirsi che una lotta politica basata su una norma parzialmente retroattiva in materia elettorale non mi sembra un granché, essendo questo genere di disposizioni ammissibili, anche se si tratta di disposizioni limitative del diritto elettorale dei cittadini e perciò opportunamente da evitare se non in circostanze storiche particolari come poteva essere quelle del 1992, per la lotta alla mafia. Insisto: la questione è se costituzionalmente sia possibile prevedere l’incandidabilità per deputati e senatori.

Qui non è in discussione l’onorabilità di questo o quel membro del Parlamento, la sua rettitudine tributaria o la sua “agibilità politica”, pure se è un leader di un partito o movimento. Così come non si auspica che il Parlamento venga riempito da delinquenti e mafiosi. Per questo ci sono già i partiti politici, non c’è bisogno di alcun sostegno ulteriore. Qui discutiamo di un principio cardine della democrazia italiana, dello stato di diritto che si basa sulla separazione dei poteri e, in particolare, sull’indipendenza delle Camere. Per giustificare l’incandidabilità sul piano costituzionale è stato affermato che si tratta di una forma di ineleggibilità rafforzata, per cui essa – ancorché sconosciuta al vocabolario italiano – poteva ricondursi al disposto dell’art. 66 Cost. (Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità).

L’affermazione, però, mostra una certa debolezza nello studio dei fondamentali giuridici. Per fortuna il nostro giudice costituzionale ha chiarito che si tratta di istituti profondamente diversi e ha affermato che le previsioni sull’incandidabilità sono dirette “ad assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente gli interessi dell’intera collettività” e che “l’obiettivo perseguito è segnatamente la prevenzione della delinquenza mafiosa o di altre gravi forme di pericolosità sociale fornite di alta capacità di inquinamento degli apparati pubblici, evitando la loro infiltrazione nel tessuto istituzionale locale”.

Vi è traccia di questi caratteri anche nel decreto Severino che riordina la materia con riferimento agli enti locali e alle Regioni, ma l’incipit del decreto (e della legge di delega), con riferimento ai membri del Parlamento, non risulta fondato sulle medesime ragioni di sicurezza pubblica e tutela della libera determinazione delle Camere, per cui: per un verso, le disposizioni del decreto e della legge delega sarebbe irragionevoli e costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 3 Cost. e, per l’altro, mostrerebbero di avere trasposto un serie di cause di ineleggibilità nel regime dell’incandidabilità; e anche per questa ragione sarebbero incostituzionali, sotto il profilo dell’eccesso di potere legislativo e dell’eccessiva limitazione dei diritti elettorali dei cittadini.

Ma questo non è tutto. Sussistono anche altri profili dal punto di vista costituzionale che suscitano perplessità e che hanno carattere sostanziale e procedurale. Cominciamo dai secondi.

La differenza tra ineleggibilità e incandidabilità è data dalla circostanza che la prima è accertata successivamente alle elezioni e quando il candidato è stato eletto; mentre la seconda opererebbe già in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali. L’efficacia del meccanismo dell’incandidabilità è di per sé evidente, come ebbe a dire anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 84 del 2006, proprio perché agisce in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali, ed è anche una limitazione particolarmente significativa dei diritti elettorali dei cittadini. Tuttavia, nel caso delle Camere parlamentari comporterebbe – come si legge nel decreto Severino – uno spostamento del controllo dalle Camere medesime agli uffici elettorali, composti da magistrati. 

Il meccanismo non è perciò conforme ai principi dell’art. 66 Cost. per il quale “solo” le Camere giudicano dei titoli di ammissione e delle cause sopraggiunte che ostano allo svolgimento del mandato parlamentare. Non a caso per l’incandidabilità sopravvenuta il decreto è costretto a fare riferimento proprio all’articolo 66 Cost., non potendosi dare l’ipotesi di formalizzare un ricorso davanti alla magistratura. Non è un mero formalismo, si tratta di un procedimento che è sostanza della garanzia dell’indipendenza delle Camere.

Dal punto di vista sostanziale, l’incandidabilità del decreto Severino trasforma il sistema democratico italiano in una forma di “democrazia protetta”, senza che questo rientri più nei canoni della Costituzione e della democrazia che l’Assemblea costituente ha voluto dare al popolo italiano. Infatti, a torto o a ragione, i Costituenti ritennero che comunque la difesa della democrazia andava attribuita ai cittadini con l’esercizio dei loro diritti, senza meccanismi preventivi che surrettiziamente avrebbero potuto limitare i diritti con il fine di tutelare l’ordine democratico. Si tratta di una prospettiva che peraltro si salda perfettamente con la tradizione del principio di indipendenza del Parlamento. Altri ordinamenti, come la Germania con la Costituzione del 1949, hanno fatto una scelta diversa dalla nostra e hanno previsto una serie di limitazioni costituzionali, tra cui quella per la perdita dei diritti fondamentali, e controlli esterni a carico del Parlamento, per tutelare la democrazia.

Ora, nulla quaestio nel trasformare la democrazia italiana in una “democrazia protetta”, ma a questo non può bastare il decreto Severino, occorre modificare diversi principi costituzionali, compresi quelli che regolano l’indipendenza delle Camere. E qui corre un brivido nella schiena e, prima di concludere, sovviene un altro interrogativo: una democrazia protetta, ma da chi?

(2 – continua)