Ultimo di tre articoli. (1) SCENARIO/ Il giurista: tutto quello che il Pd non ha capito del voto su Berlusconi, (2) SCENARIO/ Il giurista: il decreto Severino? Mette le Camere in mano ai pm
Il dibattito incandescente di questi giorni riguarda in modo confuso due vicende che, anche se riguardano entrambe Berlusconi, dovrebbero essere tenute ben distinte: quella della decadenza dopo la condanna definitiva della Cassazione e quella della cosiddetta “incandidabilità” a seguito del decreto Severino. Da entrambe può nascere un capovolgimento del sistema politico e questo non è chiaramente compreso; sia i mediatori del Pdl che vogliono guadagnare tempo e richiedono tempi più lunghi per il voto del Senato e riflessioni più accurate appaiono a corto di proposte, sia i mediatori del Pd che prospettano – anche con nomi autorevoli – l’ipotesi di un ricorso alla Consulta, magari dichiarando subito dopo che lo stesso nel merito non sarebbe accolto, si trovano in realtà nelle medesime condizioni, e cioè propongono un escamotage che non smentirebbe le posizioni del Pd, ma che darebbe a Berlusconi più tempo.
Sembra mancare una autentica via d’uscita; ma né la sentenza, né il decreto Severino sarebbero un destino inevitabile se ci fosse la Politica (quella appunto con la “P” maiuscola) nel nostro Paese.
È surreale che queste due vicende siano diventate la priorità della lotta politica, proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di uno sforzo corale, per fare rinascere la politica al fine di agguantare la ripresa economica e portare il Paese fuori dalla depressione economica più difficile dopo quella del 1929.
La domanda, allora, è: quale è la posta in gioco?
I governi che si sono succeduti dal 2007 in poi (Prodi, Berlusconi, Monti e Letta) sono stati incapaci di fronteggiare la crisi economica, hanno spremuto (e spremono) i contribuenti onesti, hanno sprecato le risorse recuperate dall’aumento della pressione fiscale senza riuscire a fermare il calo dei consumi, la disoccupazione, la carenza di lavoro per i giovani, le inefficienze degli apparati pubblici.
Hanno mostrato di essere incapaci di adottare misure di rilancio dell’economia; anzi, dove hanno potuto, hanno colpito al cuore la possibilità di ripresa: non c’è stato un programma di investimenti pubblici, non ci sono stati sgravi fiscali e la ricerca – che in ogni sistema economico assicura l’innovazione – è stata completamente svalutata e definanziata.
In più hanno sottoscritto accordi a livello europeo – come il fiscal compact, tradotto per di più e senza necessità in legge costituzionale – che renderanno l’uscita dalla crisi ancora più pesante.
Ancora peggio hanno fatto mostrando la loro incapacità di autoriformarsi. Nonostante il referendum del 1993 abbia abrogato il finanziamento dei partiti, questi hanno scialacquato miliardi di euro nel corso di questi vent’anni; da tempo hanno promesso di fare una legge elettorale giusta e sinora non lo hanno fatto; hanno promesso di ridurre il numero dei parlamentari (il più alto d’Europa) e non lo hanno fatto; hanno promesso di rinunciare al vitalizio e non lo hanno fatto; hanno promesso di lavorare di più e meglio per avvicinare la politica ai cittadini e nulla si è visto.
Dobbiamo chiederci: qual è la posta in gioco di questo momento politico?
Se il Partito democratico pensa che la priorità sia la “cacciata” di Berlusconi dal Senato, per metterlo ai domiciliari o per non consentirgli più di candidarsi nel futuro, allora vuol dire che non ha capito che nel mirino di chi sta ristrutturando il “sistema italiano” c’è anche il Partito democratico medesimo e che l’accantonamento del 25 per cento dei voti degli italiani nelle liste del M5S non è stato un segnale sufficiente.
Ancora un passo indietro. Nel Pdl e nel Pd si sono consolidate le tradizioni della prima Repubblica, redistribuite secondo una logica particolare: democristiani, socialisti, comunisti, ecc., si sono spappolati e rappresi in forme strane, ma sono rimasti i medesimi. I giudici di “Mani pulite” hanno distrutto il sistema dei partiti del tempo, ma non potevano uccidere gli uomini e le donne che facevano politica e questi si sono ricomposti per adeguarsi ai “nuovi tempi”, secondo le loro convenienze.
Tuttavia, i partiti “rappresi” della seconda Repubblica sono stati diversi dai loro danti causa. Nel bene come nel male i partiti storici erano corrispondenti allo schema dell’articolo 49 Cost., erano cioè le associazioni dei cittadini costituite per concorrere a determinare la politica nazionale. I partiti avevano sezioni e federazioni, celebravano congressi nazionali regolarmente, avevano organi che promanavano dal basso e coprivano il territorio. Ora, la base tutt’al più viene convocata per qualche kermesse nazionale, il territorio è svuotato di significato politico e gli organismi di partito sono autoreferenziali; la lotta per la leadership è una questione di vertice. La democrazia di partito è solo un pallido ricordo di altri tempi.
È gioco forza che le decisioni assunte dal sistema politico della seconda Repubblica non siano più espressione di un’ampia partecipazione e soggette, perciò, a più facili manipolazioni di vertice che le rendono torbide, tali da potere essere meglio negoziate con altri poteri che dominano la sfera pubblica.
In conclusione può dirsi che influenze esterne e non visibili operano in Italia molto più di quando i servizi segreti dei due blocchi erano attivi e determinarono decenni di destabilizzazione, anche tragica, del nostro Paese.
Il posizionamento dell’Italia nello scenario europeo e internazionale, comunque, è stato chiaro sino ai primi anni del nuovo millennio ed è coinciso con un discreto ruolo internazionale (già con il governo D’Alema, 1998/2000) e il raggiungimento dell’euro (2002).
Successivamente tutto diventa più oscuro e una lotta tra potentati per l’acquisto degli “asset” italiani di rilievo anche internazionale è apparso (e appare ancora oggi) l’oggetto del contendere. Non bisogna dimenticare che l’Italia da sempre è stata un luogo dove si fanno buoni affari. Perché smettere proprio ora?
La crisi economica e l’instabilità dell’area euro, così come quella dei paesi del Mediterraneo, finiscono per essere parte di questa lotta “globale” che si svolge anche in Italia, dove non a caso alla fine si giunge alla “dittatura commissariale” del governo Monti e all’anticipazione di una nuova ristrutturazione del sistema politico.
I risultati delle elezioni del febbraio del 2013 e le successive vicende, compresa la rielezione del presidente Napolitano e la formazione del Governo Letta, mostrano – a chi vuol vedere – che il coniglio cui sta puntando il cacciatore non è Berlusconi, ma il Partito democratico. Anche la questione Renzi, quella delle primarie e quella del congresso Pd sono tutte inscritte in questo scenario.
L’errore di prospettiva che sta compiendo il Pd nella lotta con tutti i mezzi a Berlusconi gli si ritorcerà contro nel breve periodo. Ormai i tempi sono maturi. E se il centro-destra dovesse riorganizzarsi senza Berlusconi (ma solo con il ricordo di Berlusconi), riuscirebbe lo stesso a restare sulla scena politica; mentre per il Pd la speranza di governare con altri (M5S) sarebbe la tomba e le nuove elezioni sarebbero ancora più pasticciate di quelle precedente, con primarie per il segretario, regole pre-congressuali, congresso e primarie elettorali. In definitiva è facile che imploda e che sia necessario costituire un nuovo partito che escluda una serie di personaggi e consenta ad altri (più affidabili) di entrare in scena, per concludere l’opera intrapresa.
L’unica prospettiva per l’attuale classe politica del Pd di riuscire a mantenere il proprio ruolo e sopravvivere – per quanto paradossale possa sembrare – è difendere Silvio Berlusconi, lasciarlo in Senato (con tutti i suoi privilegi) e tentare di fare durare questa legislatura il più a lungo possibile. Magari riuscendo a combinare qualcosa di buono per il Paese.
(3 – fine)