Perché dobbiamo sborsare 113 euro all’anno alla Rai? Perché dobbiamo farlo nonostante, magari, non accendiamo la tv da mesi, quando l’accendiamo non guardiamo i programmi Rai e quando li guardiamo cambiamo canale? Perché sì. Un principio di contabilità inversa ha fatto in modo che, per anni, il pagamento del canone fosse in contrasto con qualunque logica di mercato, efficienza, equità e bene comune. Lo ha denunciato il senatore di Scelta civica Maurizio Rossi: la Rai sta cercando di ottenere un rinnovo ventennale (2016/2036) della convenzione con lo Stato. Ora, dato che le entrate provenienti dal canone ammontano a 1 miliardo e 800 milioni di euro, e che l’evasione è stimata in 600 milioni di euro, “il valore complessivo del canone annuo è di circa 2 miliardi e mezzo, che, per 20 anni, sarebbero 50 miliardi di euro (pubblicità esclusa)”. 50 miliardi – sia ben inteso – a prescindere. Ovvero, le spese della Rai, divise per il numero di cittadini. Abbiamo chiesto al Senatore qualche delucidazione.



Perché ha chiesto al viceministro per lo Sviluppo economico Catricalà che non si proceda alla stipulazione della convenzione senza che siano verificate una serie di questioni?

Nel 2016 scade la convenzione tra Stato e Rai. Il rinnovo non è possibile senza che i suoi termini siano vagliati e approvati dal Parlamento. Nessuna istituzione, infatti, dispone della facoltà di apporvi la firma. Ritengo che, quando sarà il momento, Camera e Senato dovranno anzitutto interpellarsi, dopo 20 anni, sul significato del concetto di “servizio pubblico”.



Ci spieghi.

Non è più accettabile che i cittadini paghino un canone piuttosto oneroso per qualcosa che viene descritto come servizio pubblico, senza che sia stato definito cosa esso sia. Mi spiego: i reality show, le fiction, i programmi di intrattenimento, i game show e via dicendo, sono forse servizio pubblico? Tale definizione è inesistente non solo in riferimento alla tv, ma anche alla radio e al web.

Considerando la pluralità dell’offerta informativa e la lottizzazione dei tg, ha ancora senso parlare di servizio pubblico?

E’ indubbio che, ormai, sul web uno può trovare tutta l’informazione di cui ha bisogno, mentre secondo l’osservatorio di Pavia non solo la Rai è spartita tra le forze parlamentari, ma neppure rispetta la par condicio e l’equilibrio tra i partiti; non lo fa nei telegiornali locali e nazionali, nei programmi di approfondimento e nei talk. Inoltre, se devo pensare ad un programma che realmente svolga un servizio utile per la collettività, l’unico che mi viene in mente è Isoradio. Ma non è mio compito entrare nel merito.



No?

No. Non spetta a me dare un valore ad ogni singolo programma. E’ mio compito, invece, effettuare un’operazione parlamentare affinché si stabilisca cosa sia il servizio pubblico e, una volta stabilito quali programmi rientrino all’interno di tale definizione, si individuino i criteri per indicare dei costi standard; imponendo, per esempio, che un servizio giornalistico o un documentario non possano costare più di tot. 

 

E poi?

Non è detto che questi servizi vadano necessariamente affidati allo Stato. Anzi. La normativa europea impone che vengano indetti dei bandi per individuare il servizio migliore al prezzo più basso.

 

Cosa ne sarebbe dei dipendenti Rai se gran parte dei suo prodotti fossero appaltati a dei privati?

I dipendenti di quotidiani, tv, radio o siti internet privati non valgono meno di quelli della Rai. Non vi è ragione, quindi, perché i dipendenti della Rai debbano avere questa sorta di privilegio divino in base al quale il loro stipendio è assicurato dagli italiani a prescindere dai risultati ottenuti. E’ giusto, ovviamente, che abbiano delle garanzie. Ma le stesse – a livello contrattuale e di ammortizzazione sociale – di tutti gli altri.

 

Com’è possibile che per tanti anni le istituzioni abbiano continuato a sborsare miliardi alla Rai fuori da ogni logica di mercato?

Perché la Rai è la più grande lobby italiana. E’ il centro della trasversalità politica. Ogni partito ha dentro parenti, amici, amanti, centri di produzione, direttori, eccetera.

 

Cosa ne pensa della polemica sollevata dai grillini, secondo cui le cinque principali società  di produzione con la quale la Rai lavora sono riconducibili ai “soliti noti”?

La proprietà di queste società non è l’unico problema. Mi chiedo: i loro prodotti erano considerati servizio pubblico? Sono, quindi, stati pagati dai cittadini? O dalla pubblicità? E hanno generato introiti a livello pubblicitario per la tv di Stato o no?

 

(Paolo Nessi)