La richiesta di modificare una delle regole auree del regime parlamentare, vale a dire che, se si tratta di votazioni su persone, il voto delle Assemblee non può essere che segreto – un segno di rispetto anche verso gli avversari politici, di tutela della libertà di coscienza e della privacy – manifesta, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto decaduta sia la vita politica e istituzionale del nostro Paese, reso incapace di trovare un consenso sostanziale su elementi di sistema che consentano a tutti, amici e nemici, di esistere. 



Risulta difficile, in questo clima, mantenere almeno un barlume di razionalità; tutto si fa provocazione e viene letto solo alla luce di fini immediati e contingenti o di una sfiducia generalizzata da far west: sopravvive chi estrae per primo la pistola. 

E, invero, cambiare una regola è certamente legittimo (il voto segreto sulle leggi è stato modificato per permettere ai governi della prima repubblica di essere un po’ meno instabili sottraendo potere ai franchi tiratori); dubbio è se sia corretto cambiarla per accelerare la fine di un singolo avversario politico. Invece, avere regole stabili per il funzionamento degli organi costituzionali è un principio di civiltà, non sempre rispettato nel nostro Paese, tanto che quando si riuscì, dopo 40 anni, a varare il Regolamento per la Verifica dei poteri (31 gennaio 1992, sotto Spadolini) si gridò al “miracolo parlamentare”; evidentemente in Italia quando i legislatori hanno sussulti di buon senso e fanno cose ragionevoli qual è quest’ultima (visto che si tratta di un regolamento che prevede procedure e garanzie paragiurisdizionali quali esercizio del diritto di difesa  per lo svolgimento di questa attività che è certamente di natura politica, ma che ha anche forte incidenza sull’esercizio dei diritti fondamentali) si deve aspettare il miracolo; le ragioni giuridiche, evidentemente, non bastano. 



Oggi, per eliminare il voto segreto, occorrerebbe modificare il Regolamento del Senato, non essendo sufficiente un semplice parere della Giunta per il regolamento (come pure è stato sostenuto), un processo a tempi lunghi, cosa che rende evidente la strumentalità della richiesta. 

Se, nonostante tutto, si cambiasse, e già sarebbe una fine triste se si giungesse a tanto, per aggiungere devastazione a scorrettezza si dice che la richiesta (dei grillini e, di rincorsa, del Pd) sia motivata dal timore che, pur di far cadere il governo, una parte dell’opposizione o persino di chi il governo lo sostiene, sia disposta a votare a favore di Berlusconi per addossare poi la responsabilità a franchi tiratori dell’uno o dell’altro partito, con il che adombrando che chi difendesse il voto segreto lo stia facendo per difendere solo il proprio disegno politico. 



Di conseguenza, in un contesto di questo genere, la coerenza giuridica non è neppure messa in discussione, il diritto risulta essere messo fuori gioco, fuori concorso: prepariamoci a cantare il de profundis, benché si tratti pur sempre di compiere scelte non solo “giuridiche” ma di natura costituzionale. La sensazione è sgradevole per chi prova ad insegnare che il diritto costituzionale con le sue regole serve a rendere meno violento lo scontro politico, a razionalizzarlo, a ricondurlo dentro i confini di un fair play che consenta a tutti di sopravvivere e di svolgere le proprie funzioni, in questo caso legiferare per il bene del Paese.  

Morto il diritto e il suo tentativo di razionalizzare le relazioni, non resta che sperare in un secondo “miracolo parlamentare”, un sussulto almeno di orgoglio se non di moralità, di cui peraltro, al momento, non pare esservi traccia.