Mentre alla Festa nazionale di Genova Matteo Renzi dice di essere “pronto a guidare il Pd”, Silvio Berlusconi riesce a svelare, a mettere a nudo le contraddizioni profonde che esistono nel Partito democratico e nel centrosinistra. Luciano Violante, ex magistrato di punta, addirittura ribattezzato, agli inizi degli anni 90 dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, come il “Vjsinskij italiano”, fa una proposta più che ragionevole e di stretta cultura riformista (legata anche alla storia del comunismo italiano). Dice in sostanza Violante: “Berlusconi ha il diritto di difendersi davanti alla Giunta del Senato come qualunque altro parlamentare, né più ne meno. Occorre rispettare le regole anche per i nostri avversari. E’ molto facile applicare le regole solo per gli amici, è molto più complicato farlo per gli avversari”. L’ormai noto “lodo Violante” solleva quasi una ribellione generalizzata nel Pd. E non serve neppure che Violante sottolinei politicamente la sua proposta dicendo: “Io non sono favorevole a trasformare Berlusconi in una vittima. La ricerca costante del nemico è segno di debolezza del partito. E questo c’è da una parte e dall’altra”. Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità, deputato dal 2001 al 2008 con i Democratici di sinistra, una grande cultura e tradizione di sinistra alle spalle non si stupisce per quello che sta vedendo nel Pd e nelle sue varie componenti.



Scusi, Caldarola, ma perché c’è tanta irritazione nel Pd contro il “lodo Violante”?

Non c’è nulla da fare e occorre prenderne atto. Il “lodo Violante” irrita tutte le componenti interne del Partito democratico e crea unità sull’antiberlusconismo. Su questo punto sono tutti d’accordo. Ripeto: non c’è nulla da fare. E’ una svolta culturale anche rispetto al vecchio Pci. In fondo Violante che cosa ha proposto? Ha ribadito correttamente che esiste un diritto alla difesa e ha anche mostrato rispetto per l’avversario, ha lanciato un segnale invitando a non infierire, dando un riconoscimento al popolo del centrodestra. Il problema alla fine non cambia la sorte di Berlusconi. Eppure il Pd perde l’occasione per dare un esempio di cultura riformista.



Ma sono proprio tutti d’accordo su questa linea?

Credo proprio di sì. Alcuni che potrebbero parlare, su questo punto preferiscono tacere. Che cosa dedurre da questo atteggiamento? Che ormai la base del Pd, il popolo del Partito democratico è su posizioni molto più radicalizzate che un tempo e quindi tutte le componenti del Pd ne tengono conto. Così l’antiberlusconismo diventa l’àncora su cui misurare un’unità interna che di fatto non esiste. Io credo poi che si tratti di una vera svolta culturale. Per parlarci chiaro e in sintesi: ha vinto Travaglio.

In effetti stupisce la compattezza del Pd in chiave antiberlusconiana rispetto alle divisioni che si avvertono in fase precongressuale, con Pierluigi Bersani ad esempio, che attacca Matteo Renzi a proposito delle correnti.



In realtà, il Pd appare come una somma di “partiti personali”, un partito caratterizzato da autentiche filiere, con sommovimenti interni che stanno mutandolo profondamente. Oggi ad esempio il Renzi segretario fa molta più paura di ieri, fa molta più paura del Renzi che si candida alla presidenza del Consiglio. Perché Matteo Renzi muterebbe troppo il partito per soddisfare tutte le nomenklature interne. Si deve vedere in questa luce la reazione di Bersani.

 

Ma il peso che ha avuto Bersani nei mesi scorsi esiste ancora nel Pd?

Il suo ruolo e il suo peso sono molto ridimensionati. Ha perso contatti, non può più incidere nella vita del partito e nei suoi assetti come in passato. Anche per una ragione precisa: è stato un segretario che ha perso le elezioni, che è stato sconfitto.

 

E allora spostiamo lo sguardo su un altro personaggio storico della sinistra: Massimo D’Alema. Che cosa fa? Che cosa ha in mente?

D’Alema è uno che ragiona politicamente ed è anche molto realista. Sta cercando di arrivare al congresso con una percentuale di voti che possa appoggiare la segreteria di una persona seria come Gianni Cuperlo. Penso però che in D’Alema prevalga il realismo e che abbia già pensato che la partita nel Pd si gioca tra due ex democristiani, Enrico Letta e Matteo Renzi. In sostanza, non c’è “più trippa per gatti”.

 

Ma tra Renzi e Letta chi sceglierebbe?

 Si schiererebbe con Renzi.

 

(Gianluigi Da Rold)