Come è stato più volte correttamente segnalato dagli organi di stampa, ma anche dal mondo accademico e politico-istituzionale, il tema più “scottante” che la Commissione dei 35 saggi ha affrontato è stato la forma di governo. La domanda a cui occorreva rispondere era, in estrema sintesi, la seguente: la forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione risponde a tutt’oggi alle esigenze di un “governo” democratico ma efficace ed efficiente per il Paese? 



Tale domanda presuppone un ovvio giudizio negativo, unanimemente condiviso all’interno della Commissione (ma credo nel resto del Paese), sulla capacità decisionale ed effettiva del Governo, poiché se il giudizio fosse stato positivo, il problema della forma di governo non si sarebbe posto, né sarebbe stato posto all’attenzione delle riflessioni della Commissione. 



È dunque su tale questione che si è innestato il dibattito che ha portato, anzitutto, a condividere alcuni presupposti, che è bene conoscere allo scopo di valutare sino in fondo le proposte contenute nel Rapporto finale. 

Sinteticamente due sono state le considerazioni che hanno spinto a formulare proposte di riforma.

Anzitutto il fatto che l’integrazione europea e le sfide internazionali richiedono che il nostro Paese, tenuto a misurarsi con competitori dotati di più salde strutture politiche, accentui le sue prestazioni in termini di efficienza, capacità decisionale e tempestività.



In secondo luogo la constatazione la crisi dei partiti politici (che in Italia ha assunto caratteristiche assai più radicali che in altri Paesi europei) vanifica la loro funzione costituzionale (concorrere “a determinare la politica nazionale”) e si riverbera sulle attribuzioni e la funzionalità del Parlamento (producendo mostri legislativi come articoli illeggibili composti da molte centinaia di commi, e slavine legislative che, attraverso un disordinato succedersi di norme e di interpretazioni, hanno corretto per molte volte nell’arco di pochi mesi lo stesso provvedimento, vanificando la certezza del diritto e la chiarezza dei rapporti tra cittadini e Stato) e del Governo (che è privato di un reale potere di guida del procedimento legislativo).

Le proposte di forma di governo elaborate dalla Commissione sono tre: il semipresidenzialismo; il parlamentarismo “razionalizzato” e la forma di governo parlamentare del Primo ministro, ritenute tutte coerenti con i principi propri delle democrazie occidentali.

Il sistema più innovativo (rispetto all’attuale Costituzione) è certamente il semipresidenzialismo, poiché consiste nella elezione diretta del Presidente della Repubblica che, poi, nomina un Presidente del Consiglio di sua fiducia. 

La forma di governo parlamentare del Primo ministro, che comunque costiuirebbe una novità,  costituzionalizzerebbe la prassi che già esiste e che consiste dal far emergere da una sola consultazione degli elettori la maggioranza parlamentare e l’indicazione del Presidente del Consiglio, in modo da incorporare la scelta del leader nella scelta della maggioranza. 

La razionalizzazione della forma di governo parlamentare, che è il modello che meno si discosta dall’attuale normativa costituzionale, consiste nel riservare alla sola Camera dei Deputati il compito di dare e revocare la fiducia al Governo, con il vincolo della mozione di sfiducia costruttiva e nel rafforzare il vincolo fiduciario col Parlamento, attribuendo esplicitamente al Governo idonei poteri nell’ambito del procedimento legislativo che gli garantiscano tempi certi per le deliberazioni parlamentari.

Quest’ultima è delle tre proposte quella forse più debole come risposta alle disfunzioni da tutti evidenziate, relative alla crisi del sistema dei partiti. Del resto chi l’ha sostenuta in Commissione è partito dalla considerazione secondo cui “le carenze di capacità decisionale effettiva del sistema politico-istituzionale risalgono ai conflitti all’interno delle maggioranze, e soprattutto, sul piano attuativo, ai caratteri assunti dalla dimensione amministrativa, che non dipendono affatto dalla forma di governo ma dalla debolezza del ‘comando’ politico e dal moltiplicarsi delle sedi di resistenza e di influenza degli interessi particolari o corporativi“.

Se ciò fosse vero basterebbe una riforma del sistema elettorale a migliorare la funzionalità della forma di governo parlamentare. In realtà l’esperienza trascorsa ci dice che ciò non è successo. Dal 1992, infatti, è andato in crisi non solo il sistema dei partiti ma con esso l’idea stessa di partito come forza di mediazione che riduce i rischi dei conflitti e che, con la propria forza di rappresentazione, assicura un apprezzabile grado di stabilità al sistema.

Oggi i nuovi attori politici (che nascono, si estinguono, si fondono continuamente) non reputano vincolanti i precedenti risalenti ad un contesto diverso. La destrutturazione dei partiti e del sistema dei partiti, inoltre, non è corretta dalla formazione delle coalizioni, perché non vi sono regole convenzionali di coalizione. 

In questo senso la crisi delle istituzioni cui assistiamo (instabilità del governo, incapacità decisionale del Parlamento…)  è conseguente alla crisi dei partiti. 

L’elenco delle situazioni in cui la crisi dei partiti ha influenzato le istituzioni sarebbe lungo, ma qualcuna va pur ricordata: le riforme elettorali sinora varate sono state tutte trasformate dai partiti; le crisi di governo sono state quasi tutte extraparlamentari, sino all’ultimo eclatante episodio della mancata formazione del governo dopo la tornata elettorale; persino l’istituto del Presidente della Repubblica è stato indirettamente trasformato dal modo di comportarsi ed essere dei partiti.

Le riforme elettorali, dunque, non hanno risolto i problemi del Paese e neppure oggi, da sole, sono in grado di farlo. Certo esse sono un pezzo fondamentale della prospettiva di riforma ma fermarsi nuovamente solo ad esse significa ripercorrere gli errori del passato e, primo fra tutti, quello di ritenere “autosufficiente” il sistema politico, al di la delle regole costituzionali.

Si tratta, invece, di introdurre a livello costituzionale dei meccanismi che impediscano che la capacità conformativa dei partiti possa giungere a deformare le istituzioni costituzionali, introducendo regole e istituti che neutralizzino l’effetto paralizzante dei veti politici incrociati.