Ero convinto anch’io che le dimissioni di massa minacciate dal Pdl fossero sostanzialmente un bluff per attirare l’attenzione su una situazione che stava correndo verso un esito già scritto da tempo. Ho avuto torto, se si lascia da parte il fatto che a dimettersi saranno i ministri – come annunciato – e non i parlamentari. Resto comunque convinto che ogni discorso sulle trattative tra Pdl e presidenza della Repubblica per garantire una qualche forma di immunità fosse un discorso sballato. Così come sballate sarebbero state queste trattative se davvero – come sembra plausibile – ci sono state.
Che si possa pensare che il capo dello Stato possa garantire l’immunità di una persona già condannata in giudizio denota una concezione singolare del ruolo della presidenza della Repubblica: che non è neanche una concezione da repubblica presidenziale – come pure qualcuno oggi sostiene parlando di Re Giorgio – ma è puro Sudamerica. E se in Sudamerica la prendono male, pensino al caso Battisti.
Pensare che, vista la situazione, il capo dello Stato possa esercitare una “moral suasion” sulla magistratura (per future imputazioni e futuri provvedimenti restrittivi della libertà personale) e sulle formazioni politiche che in Giunta hanno ritenuto la perfetta costituzionalità della legge Severino, significa davvero immaginarsi un capo dello Stato onnipotente, che de albo facit nigrum.
Non amo certe prese di posizione della presidenza della Repubblica negli ultimi anni. Ritengo che siano passati secoli dalla figura di presidente che ho imparato a conoscere ai tempi della Prima Repubblica. So di vivere ed operare in un sistema diverso. Però sono anche consapevole che, di fronte al vuoto pneumatico del sistema politico, la dilatazione di ruolo della presidenza della Repubblica è stato un fatto naturale, che non è stato cercato, ma che è quasi sempre cascato addosso a chi sedeva al Quirinale. E che il Quirinale ha più di una volta sopportato.
Quel che è certo, comunque, è che il presidente della Repubblica non è in grado di annullare le sentenze come ai tempi della monarchia d’ancien régime. Se così fosse, la minaccia del Pdl di abbandonare gli Stati Generali avrebbe un senso. Purtroppo il presidente della Repubblica ha a sua disposizione un potere di grazia che può esercitare a certe condizioni e una tantum. E che avrebbe senso esercitare se la condanna di un leader politico di primo piano fosse un fatto che si ritiene essere destinato ad essere episodico. Insomma, qualcosa sembra che tu abbia combinato, tu sostieni che non è vero e sei perseguitato da una magistratura avvelenata dal demone dell’ideologia, in fondo devi farti solo nove mesi di servizio sociale, se me lo chiedi in un certo modo e gli altri partiti non strillano troppo, io la grazia te la posso anche dare, così la piantiamo tutti e ci dedichiamo alle cose serie. Ammesso che ci riusciamo.
Purtroppo il quadro non è questo. Anche perché, senza disporre di informazioni riservate, ed essendo un lettore di media intelligenza della stampa nostrana, mi riesce facile capire che, nel momento in cui il senatore Berlusconi non sarà più tale e non potrà avvalersi di ciò che resta della immunità parlamentare – esemplare qui quello che ha detto Michele Ainis sul Corriere – ci sarà la corsa tra le varie procure d’Italia ad impallinare l’anatra zoppa di Arcore. Per cui ogni provvedimento di indulgenza elargito per la prima condanna rischia di diventare un boomerang devastante per la presidenza della Repubblica e di travolgerne il ruolo di ultima istanza nel campo di macerie che è oggi il nostro sistema istituzionale.
Proviamo cioè ad immaginarci cosa succederebbe se il Quirinale, accelerate le procedure di rito, elargisse la grazia a Berlusconi, i partiti dell’opposizione strillassero nei limiti prevedibili e nel giro di una settimana i giornali dovessero riportare di nuovi avvisi di garanzia inviati a Berlusconi per questo o quel fatto su cui le procure stanno indagando (tanto ormai la competenza territoriale delle procure è un mito giuridico e tutti indagano su tutto. Salvo poi vedersi dichiarare incompetenti. Ma questo avviene a riflettori spenti ed è un fatto puramente processuale che interessa a pochi, se non all’indagato).
Insomma, se ci si riflette, è facile capire che l’elargizione della grazia o di qualunque altra indulgenza a Berlusconi cui seguisse a breve un avviso di garanzia o un arresto per qualunque motivo diverrebbe subito, di fronte a buona parte del paese, una dichiarazione di complicità del Quirinale con Berlusconi. E significherebbe mettere nelle mani di qualunque procuratore della Repubblica (e della sua personale concezione della giustizia) l’autorità e l’autorevolezza del Quirinale. E cioè di una istituzione che grazia un delinquente abituale, come non a caso viene sistematicamente definito da qualcuno. Che ne uscirebbe totalmente distrutta.
Insomma, graziare Berlusconi significherebbe mettere nelle mani di qualunque procuratore ciò che resta del nostro sistema politico, ormai rappreso attorno alla presidenza della Repubblica.
Ed è qui che sorge il problema. Contrariamente a quanto si può pensare il problema non è Berlusconi e le sue condanne. In fondo Berlusconi è un imprenditore che vent’anni fa ha deciso – per ragioni sue – di occuparsi di politica. E da allora è stato un imprenditore a capo di un gruppo multinazionale che è stato passato ai raggi x da ogni procura d’Italia. Il che – per inciso − ha costituito negli anni la fortuna personale e professionale di diversi avvocati versati nel diritto penale. Che le attività di Berlusconi prima e dopo la sua discesa in campo fossero una miniera d’oro in cui per ogni procura fosse redditizio scavare per ragioni diverse (dalla tutela dello stato di diritto alla notorietà individuale) è facile ad immaginarsi. Il punto è che ogni procura lo fa nel nome dell’ “atto dovuto” e della “obbligatorietà della azione penale” e dello “stato di diritto”. Cioè nel nome di paraventi da opporre all’esterno ad ogni scelta discrezionalissima nell’esercizio dell’azione penale.
Ed è qui, dicevo, che sta il problema. Perché le invocazioni allo stato di diritto che ho sentito in queste ultime settimane in margine alla vicenda condanna-incandidabilità-legge Severino-interdizione pubblici uffici etc. di Berlusconi mi danno qualche brivido. A leggere i giornali – e diversi autorevoli colleghi − sembra che lo stato di diritto si riduca alla indipendenza assoluta e alla sostanziale irresponsabilità della magistratura. Si riduca cioè al fatto che se c’è una sentenza questa deve essere eseguita. E il giudice è solo lo strumento di una legge così obiettiva e astratta da essere cieca.
Altra versione di questo argomento è quella per cui il cittadino Berlusconi è un cittadino come tutti gli altri. Quindi non si vede perché dovrebbe godere di un trattamento differenziato rispetto a tutti gli altri. Ne va dell’uguaglianza e dello stato di diritto. Qualche settimana fa mi è capitato di sentire la presidente della Camera, intervistata su Sky sulla vicenda dell Giunta per le elezioni del Senato, esprimersi sull’opportunità che la Giunta applichi il principio costituzionale dell’eguaglianza che è un valore essenziale della nostra Costituzione. Alla faccia del principio bicamerale e del fatto che Camera e Senato sono poteri distinti dello Stato, che dovrebbero operare in modo parallelo e senza interferenze reciproche. Almeno sulla carta o nelle dichiarazioni dei rispettivi presidenti.
Io non me la ricordo Nilde Jotti che, da presidente della Camera, si metteva ad esprimere in pubblico auspici su un voto del Senato. Ma può darsi che sbagli. E che il precedente si possa trovare. Si sa che i funzionari parlamentari stanno lì per quello.
Comunque è da dichiarazioni come queste che emerge il problema. Contrariamente da quanto può desumersi dalla vulgata diffusa da politica e stampa, lo stato di diritto non è affatto lo stato delle sentenze e lo stato del giudice indipendente e irresponsabile (perché se lo si rende responsabile di qualcosa, poi non si sa cosa succede: in fondo questo non è un paese normale).
Questo, per chiamare le cose con il loro nome, si chiama stato di giurisdizione. Ed è una patologia ben nota dello stato di diritto. Se volete, una sua involuzione. O una sua degenerazione.
Lo stato di diritto è essenzialmente – e prima di tutto – limitazione del potere politico e separazione dei poteri dello Stato. È l’idea per cui tutto il potere politico debba essere concentrato in capo allo Stato perché poi, all’interno dello Stato, possa essere limitato dal fatto di essere frammentato da una costituzione: innanzi tutto per evitare che chi fa le leggi le possa anche eseguire. Ma anche per evitare che un potere possa influire sulla organizzazione e sulla attività di un altro potere. Se è da 150 anni che abbiamo un giudice amministrativo distinto dai tribunali ordinari è perché, 150 anni fa, non si riteneva opportuno che la magistratura ordinaria, conoscendo degli affari dell’amministrazione, desse degli ordini al governo o interferisse con la sua azione. Perché avrebbe violato la separazione dei poteri.
Oggi, invece, avendo fatto dei gran passi avanti, i parlamentari ritengono opportuno che sia la magistratura a decidere chi deve fare il parlamentare o chi deve smettere di fare il parlamentare. Il che non è un bene né per i parlamentari, che abdicano in premessa alla loro posizione di potere dello stato, né per la magistratura, che dovrebbe giudicare senza essere caricata della responsabilità tutta politica di escludere qualcuno dall’esercizio della funzione parlamentare.
Quello che è meno noto è che nello stato di diritto la magistratura non è affatto un potere neutro e irresponsabile. E il giudice non è la bocca della legge. Questa è la vulgata italiana dello stato di diritto: ed è una vulgata che è stata diffusa – per ragioni comprensibili, visto quello che era successo – soprattutto nel dopoguerra. Ed è una vulgata che dello stato di diritto e del ruolo della magistratura ci proviene dalla Rivoluzione francese: quella della legge come volontà generale; della dea giustizia giusta perché cieca; del giudice potere neutro e bocca della legge; e, per qualche anno, anche delle ghigliottine nel nome del popolo e della nazione. Poi si sono addolciti. Ma non molto.
Nello stato di diritto quello del giudice è un potere terribile: anzi il più terribile di tutti. Perché in virtù di tale potere “Può devastare lo Stato con le sue volontà generali e, siccome ha altresì il potere di giudicare, può distruggere ogni cittadino con le sue volontà particolari”. Sicché, essendo il potere più terribile, quello del giudice non è un potere neutro, ma è un potere che va neutralizzato. È molto diverso. Perdonate il tono improvvisamente aulico ma sto riprendendo il cap. VI, libro XI dello Spirito delle leggi di quel francese che era andato in Inghilterra a studiare ed è tornato nel continente con la curiosa idea di raccontare il modo in cui gli inglesi si governavano dai tempi in cui avevano chiuso con Cromwell. Ed è stato così convincente che poi quel modo di governarsi si è diffuso in mezza Europa con il nome di stato di diritto.
Insomma, per Montesquieu – leggere per credere − la cosa più pericolosa era quella di trasformare la magistratura in uno “stato” o in una “professione”, perché altrimenti, sempre per Montesquieu, si finisce per temere i magistrati e non la magistratura.
Ora io non so quanto queste pagine siano state frequentate da coloro che in queste settimane hanno elevato canti altissimi allo stato di diritto, al giudicato formale, all’uguaglianza dei cittadini e all’indipendenza dei magistrati. Però so che se mastico l’inglese, vado su google e clicco su questo indirizzo scopro un mondo completamente diverso, dove nessuno si indigna a leggere che i giudici della Corte Suprema possono essere rimossi dal potere politico attraverso una petizione del parlamento alla Corona; dove si precisa che il potere politico ha esercitato questo potere solo una volta nel 1830 per un giudice della High Court che si metteva in tasca i soldi delle parti e un paio di volte per giudici delle giurisdizioni minori che combinavano marachelle tipo contrabbandare whisky da Guernsney alle rive inglesi.
Scopre un mondo dove si sa benissimo che non è bene che i giudici diventino uno “stato” o una “professione” – come copiava Montesquieu una volta passata la Manica – e per questo c’è circolarità tra le professioni giuridiche; dove i giudici rispettano il potere politico e da questo sono rispettati. Perché sanno di fare quasi lo stesso mestiere.
Scopre un mondo dove i Crown Prosecutors sono soggetti, nella scelta dei reati da perseguire, a linee guida adottate dal potere politico, anche perché lì si sa benissimo che, siccome la giornata è di ventiquattro ore e la settimana di sette giorni, il Prosecutor deve scegliere a quali classi di reati bisogna dare la priorità. E allora si capisce che, dovendo scegliere, perseguire un reato significa, di fatto, depenalizzarne un altro. E non è bene che questa scelta la faccia un funzionario della Corona.
Certo, la nostra raffinata cultura giuridica è lontana da tutto questo. Quando un magistrato colto e serio come Luciano Violante, non ascrivibile ai ranghi del partito-azienda, scrive un libro assolutamente onesto sullo stato della magistratura in Italia (L. Violante, Magistrati, Torino 2007) ed esprime dubbi sull’assetto dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario, può essere tranquillamente processato in piazza e preso a gavettoni il giorno dopo. Certo non per il libro, ma perché ha solo detto che forse la legge Severino avrebbe potuto essere mandata alla Corte costituzionale.
Il che – detto per inciso − sarebbe stata una eccellente via d’uscita dalla situazione in cui ci siamo infilati, visto che estendere automaticamente ai parlamentari istituti pensati vent’anni fa per i consiglieri comunali magari qualche problema di legittimità costituzionale può darlo.
Così non è stato. Perché le sentenze – nello stato di diritto immaginario delle dichiarazioni alla stampa – vanno rispettate. E il giudicato è il giudicato.
Forse non è per caso che quel signore francese che ci parlava dello stato di diritto 200 anni fa, prima di esporci come funzionava il potere giudiziario in Inghilterra, per farci capire quali fossero i rischi delle involuzioni del potere giudiziario e della concentrazioni di potere in capo alla magistratura, ci descrivesse (sempre cap. VI libro XI dello Spirito delle leggi) come aveva visto funzionare la magistratura nelle Repubbliche italiane di fine ‘700. E le additava a perfetto esempio delle concentrazioni di potere da evitare.
Si vede che viaggiare aiuta.