Il prossimo 9 settembre ci troveremo davanti a due possibili (non) decisioni di notevole portata. A Washington, il riluttante Commander in chiefdella superpotenza globale chiederà a un Congresso molto voglioso di negarglielo il permesso per bombardare la Siria. A Roma la Giunta per le elezioni del Senato deciderà (o inizierà a rimandare) sulla decadenza dallo scranno senatoriale di un Silvio Berlusconi molto più che riluttante davanti all’ipotesi nefasta. Abbandonando Barack Obama al suo destino mondiale, conviene concentrarsi su quello del Cavaliere, tanto più decisivo per le sorti dell’Italia. 



Il 9 settembre di Berlusconi è zeppo di incognite. Al momento, l’unica cosa chiara è che davanti a lui si aprono, più che tanti sentieri che si biforcano come piaceva a Borges, molti vicoli stretti: ma tutti ciechi. E l’atteggiamento ondivago del capo del Pdl – nello scorso weekend è passato da un perentorio “se mi fanno decadere cade il governo” a un altrettanto stentoreo “sono responsabile, il governo va comunque avanti” – certifica che lui stesso ne è consapevole. 



Breve mappa dei vicoli ciechi. La grazia. Presuppone innanzitutto un’accettazione della colpa da parte di Berlusconi, che come è noto non vuole sentirne nemmeno parlare. Dall’altra parte ci vuole una decisione (impegnativa) di Giorgio Napolitano, che finora non ha però dato segnali. Inoltre, non è chiaro se un provvedimento di grazia risolverebbe tutti i problemi “accessori” del Cav., e del resto non lo metterebbe al riparo da condanne future. Vicolo ancora più cieco è quello dell’amnistia: “vasto programma”, direbbe De Gaulle, ma inapplicabile a Berlusconi e soluzione invisa almeno a metà del Parlamento (invece servirebbe il 75 per cento dei sì). Ottenere dal Pd l’assenso a considerare nulla la legge Severino è come chiedere al partito di Enrico Letta (e Renzi, ma anche di Rosy Bindi) di suicidarsi. Anche la sola idea di chiedere alla Corte costituzionale un giudizio di validità sulla Severino è strada stretta e del resto Luciano Violante, solo per aver detto che la cosa non è implausibile, è stato processato in piazza dal suo partito. Far cadere il governo e andare alle elezioni è un’altra strada con davanti un muro, quello del capo dello Stato che nel sacro nome della necessità nazionale non ha nessuna intenzione di sciogliere le Camere. 



Del resto, incassare la cacciata del proprio leader dal Senato e fare finta di niente è come chiedere al Pdl di tagliarsi le vene e lasciarsi morire tra gli insulti della base. I falchi del partito chiedono rivoluzioni, la “Famiglia” e l’Azienda invocano mediazioni. Forse, l’unico pertugio praticabile è il day-by-day, un allungare i tempi tra un ricorsino alla Consulta, uno a Starsburgo, una richiesta al Colle di dire la sua. 

E poi vedere, tra meno di un anno ci sono le Europee, e un leader “candidabile” potrebbe ritrovare in Europa quella agibilità politica che in patria gli viene negata. Sono più o meno queste le magre ipotesi sul campo, visto che l’unica politicamente risolutiva – l’assunzione di responsabilità da parte di una politica non più disposta a farsi determinare dalla magistratura, o di usarla a proprio vantaggio – è al di là delle nuvole.

Ma forse la verità potrebbe essere un’altra, a partire da un’altra data: entro il 16 ottobre, il capo-condannato dovrà dire ai giudici se intende scontare la pena ai domiciliari, o farsi affidare ai servizi sociali. Perché, tra tanti vicoli ciechi, c’è n’è uno più buio di tutti: le sentenze, per quanto discutibili, prima o poi però diventano applicabili.

Ma è proprio da qui, ex tenebris lux, che forse può scoccare una scintilla per Berlusconi. Se non di salvezza, almeno di reale agibilità politica. È, in buona sostanza, la famosa “soluzione Pannella”. Caro Silvio, gli ha detto il vecchio leader radicale: la condanna ce l’hai, accettala con coraggio, brandiscila tu come una spada di verità, fatti un giro da condannato, ma intanto sposa la nostra battaglia per la giustizia giusta, firma i nostri referendum e trasformati da nemico sconfitto e in vincoli in nuovo centro di un progetto politico: questa agibilità, non te la può togliere nessuno. Qualcuno, con un po’ d’ironia cattiva, l’ha ribattezzata “soluzione Mandela”. Per sottolineare che, per fare il martire della libertà, bisogna essera a) innocenti come angeli b) idealisti e disinteressati c) coraggiosi fino al martirio. Tre caratteristiche non proprio nel Dna del Nostro. Ma tant’è, i referendum radicali li ha firmati (nella foga, anche quelli contro le leggi firmate da lui: il povero Gasparri ne è uscito pazzo) e s’è detto pronto a riprendere l’iniziativa politica sulla giustizia che – bisogna dirlo – vent’anni fa buttò colpevolmente alle ortiche. 

Berlusconi è uomo di grandi sorprese. Ma se ora smettesse di fare l’imputato (anzi, ormai è condannato) e si rimettesse a fare politica, senza stare a chiedere a nessuno l’agibilità come se fosse un collaudatore di ascensori, il suo spazio non glielo potrebbero negare. Nemmeno dai domiciliari a Villa San Martino. Ma ha davvero la voglia e la forza di farlo? Forse sì, perché se c’è una cosa che sa bene, è questa: comunque vada – da riabilitato, da padre nobile o in effigie sulle bandiere – il prossimo leader del Pdl sarà lui. Che si voti adesso o tra 18 mesi, il centrodestra non ha altra ragione sociale se non il suo Cavaliere. E se è un Cavaliere martire, perché no?