Hanno almeno due pregi le motivazioni della bocciatura del “porcellum”, appena rese note dalla Corte costituzionale. Non solo, definiscono piuttosto chiaramente i paletti entro cui si deve svolgere il dibattito sulla riforma della legge elettorale, ma anche sgombrano il campo da ogni dubbio sulla legittimità del parlamento in carica.
Con buona pace di grillini vari e oppositori assortiti, i 15 giudici della consulta sono stati categorici: prevale il principio della continuità degli organi dello Stato, quindi le attuali Camere sono pienamente legittime, e gli effetti della sentenza si vedranno solo a partire dalla prossima tornata elettorale. Quella passata è, appunto, passata. E’ un fatto concluso, che non può essere rimesso in discussione.
Qualora il parlamento fosse paralizzato dai veti incrociati si voterebbe con un sistema proporzionale puro, con soglia al 4% e con la sola necessità di regolare le modalità per l’espressione del voto di preferenza, ma potrebbe bastare un intervento regolamentare. La sentenza, infatti, è auto applicativa, perché non si può provocare un vuoto legislativo in una materia tanto delicata come la legge elettorale.
In realtà, nessuno si augura di tornare a votare con il proporzionale puro, perché condannerebbe il paese ad un eterno governo delle larghe intese. La discussione sula legge possibile, però, ora può (e deve) ricominciare da capo.
Il primo paletto posto dalla corte riguarda il premio di maggioranza. Il meccanismo previsto dal “porcellum”, in assegna di una soglia minima necessaria per far scattare il bonus di governabilità è stato bollato come distorsivo della volontà popolare, al punto da alterare la rappresentanza democratica. Dunque, qualunque premio di maggioranza futuro dovrà indicare una soglia minima, presumibilmente non inferiore al 40 per cento. Postilla pesante è però che questo istituto non potrà essere cumulato con altri meccanismi maggioritari.
Cerchiamo di tradurre: perfettamente adeguato alla sentenza della Consulta è il sistema del “sindaco d’Italia”, doppio turno di coalizione, dove dunque il premio scatta al raggiungimento della maggioranza assoluta, unito al voto di preferenza. Assai meno adeguato ai paletti posti dai 15 giudici della Corte appare, almeno a prima vista, il “mattarellum” corretto, di cui si è discusso in questi giorni. L’ipotesi avanzata da Renzi e dai suoi, infatti, prevedeva di suddividere la quota proporzionale del 25% contemplata dalla legge del 1993 in un 15% di premio di governabilità e in un 10% di “diritto di tribuna”, riservato alle formazioni minori. Il sommarsi di due meccanismi maggioritari potrebbe però finire di nuovo nel mirino della Consulta.
Il secondo punto chiave della motivazione della sentenza della Corte è il non aver bocciato del tutto le liste bloccate. Basta che siano corte (diciamo 4 o 5 candidati al massimo), perché così si renda possibile identificare il candidato.
In questo modo si mantiene in gioco il sistema spagnolo, basato su collegi molto piccoli, di ambito provinciale o sub-provinciale, che eleggono ciascuno un pugno di parlamentari. Con cautela, comunque, su questa ipotesi si potrebbe calare un premio di maggioranza nazionale. Ma l’importante – agli occhi dei giudici – è cancellare liste sterminate, che in alcuni casi sono giunte a sfiorare i cinquanta nomi.
Da questi punti fermi si ricomincia il confronto sulla legge elettorale che serve al paese, la più urgente delle riforme istituzionali. L’onere della prima mossa spetta al Partito Democratico, che dovrebbe dipanare la matassa in una girandola di riunioni. Poi Renzi e i suoi hanno fatto sapere attraverso Maria Elena Boschi che chiederanno di tenere in mano il mazzo: chiederanno cioè che il relatore della legge sia un democratico, ma bisognerà vedere che cosa ne penserà Francesco Paolo Sisto, il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Forza Italia, che sinora quel ruolo lo ha riservato a se stesso. Trovare un’intesa non sarà facile, e si potrebbe finire anche per terremotare il governo. Ma su una cosa i democratici hanno ragione. Adesso non ci sono più alibi per nessuno, se davvero si vuole dare una legge elettorale al paese, e non condannarlo all’eterno immobilismo delle larghe intese.