La “profonda sintonia” tra Renzi e Berlusconi è il passo decisivo per avviare finalmente alcune essenziali riforme istituzionali oppure il viatico per il percorso più o meno accidentato che condurrà allo scioglimento anticipato delle Camere? A questa domanda si potrà dare una prima risposta soltanto lunedì pomeriggio, quando si conoscerà il testo del disegno di legge di riforma del sistema elettorale. 



Se è vero, infatti, che si tratterà di un disegno di legge rivolto nello stesso tempo a garantire governabilità e bipolarismo, e contemporaneamente a “eliminare il potere di ricatto dei piccoli partiti”, è inevitabile la strenua opposizione sia delle forze politiche centriste che compongono l’attuale maggioranza, sia delle componenti interne al Pd che temono di essere sopraffatte nella selezione delle prossime candidature. Ma non è facile dimostrare all’opinione pubblica le ragioni di tali opposizioni e soprattutto sfuggire all’accusa di volere un sistema elettorale da “prima Repubblica”. L’onere di rovesciare il tavolo comporta una pesante responsabilità: l’elettorato punisce infatti chi chiede il voto per interessi di parte. Insomma, la profonda sintonia si dimostra anche nella sfida contemporaneamente rivolta ai veri avversari dell’accordo oggi trovato sui principi essenziali del percorso riformatore.    



Tanto più che, sulla base di quanto detto dal segretario del Pd, la riforma del sistema elettorale viene collegata a due riforme davvero epocali: la rifondazione del Senato su nuove basi, sopprimendone la connotazione elettiva e rendendolo Camera delle autonomie sul modello federale tedesco, e la fine del bicameralismo perfetto, e dunque l’instaurazione di una mutata forma di governo fondata sulla fiducia monocamerale. Per raggiungere entrambi questi ambiziosi obiettivi occorre però una legge di revisione costituzionale. Dunque, nella proposta che sarà sottoposta alle altre forze politiche, la riforma elettorale e la riforma costituzionale dovrebbero sostenersi a vicenda, richiedendo un orizzonte temporale non breve e quindi una coerente piattaforma parlamentare. 



Anche in questo modo “la profonda sintonia” si dimostra convergente con gli auspici ripetutamente formulati da Napolitano e con l’alternativa chiaramente prospettata già nel discorso di dicembre alle alte cariche dello Stato: mantenere la legislatura – con l’attuale presidenza della Repubblica – sino a quando non si giunga all’approvazione delle riforme considerate indispensabili; oppure decretarne la fine quando se ne verifichi l’impotenza, con l’attribuzione delle relative responsabilità a chi non ha voluto partecipare al disegno riformatore.  

In tutto ciò la questione della sopravvivenza dell’attuale Governo è divenuta ormai secondaria: se le riforme si avvieranno nel senso auspicato, la prosecuzione dell’esecutivo diventerà una pura formalità, dato che il destino della legislatura sarà legato, anche nelle attività propriamente di governo, agli accordi che reggeranno la conclusione dei procedimenti legislativi e di revisione costituzionale; se le riforme saranno bloccate sul nascere, il Governo non potrà più giocare alcun ruolo, se non quello forse di accompagnare il Paese alle urne. 

E per di più, in quest’ultimo caso, continuando ad assumersi il peso e le responsabilità delle omissioni e degli errori di cui è ripetutamente accusato da chi oggi si mostra, anche su questo, in “profonda sintonia”.  

In questo quadro, il Parlamento sembra sempre più debole e incapace di esprimersi: il sistema elettorale vigente lo ha a tal punto indebolito che l’unica prova di forza potrebbe consistere nell’accelerare la crisi e quindi il suo stesso scioglimento. Una ragione in più per concordare con quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza sul Porcellum: la finalità della governabilità non è un valore costituzionale che può prevalere sull’esigenza della rappresentanza. Senza quest’ultima, la democrazia muore.