Politici regionali che finiscono indagati per spese “personali” pagate con i fondi dei gruppi consiliari. Spesso per una manciata di euro. Ma sono questi gli sprechi delle regioni italiane che ci fanno andare su tutte le furie o gli sperperi veri, quelli che ammontano a miliardi di euro, si annidano altrove? Ad esempio nelle voragini della sanità pubblica, nelle spese delle Asl, nella gestione del trasporto locale o nei mille rivoli di enti e partecipate? Lo abbiamo chiesto a Carlo Buratti, docente di Scienza delle finanze all’Università di Padova.
Le regioni continuano a generare sprechi. Come si può combattere una piaga del genere?
La strada da percorrere è quella di rendere produttiva la spesa pubblica. E anche le regioni, come tutti gli altri enti, devono cominciare a percorrere questa strada. Che riguarda soprattutto la sanità, anche se non esclusivamente, perché il bilancio delle regioni è impegnato in massima parte su questa voce. Oggi ci si aspetta molto dai costi standard che il ministero ha varato dopo un lungo contenzioso con le regioni su quali dovessero essere quelle di riferimento.
Saranno risolutivi?
In realtà, l’impostazione non è molto diversa dai meccanismi che hanno governato fino a oggi l’attribuzione delle risorse. Già negli anni precedenti si faceva riferimento infatti a un costo medio per le tre grandi aree della spesa sanitaria, quella ospedaliera, quella farmaceutica e quella della medicina generale o territoriale come la chiamano adesso. Veniva stabilito un costo medio per abitante, tenendo conto anche della struttura per età della popolazione, perché da esse dipendono in modo rilevante i consumi sanitari: un ultra65enne costa tre volte una persona in età giovanile o in età media.
Adesso invece?
Con la nuova procedura si prende come riferimento la media delle regioni più virtuose invece di quella generale. Evidentemente qualche regione dovrà fare dei risparmi per rientrare in questi costi standard. Ci tengo però a sottolineare che questa è sicuramente una spinta verso l’efficienza. Ma ci sono anche dei modi per eludere questa spinta.
In che modo?
Se bisogna stare dentro una spesa determinata in questo modo, si può anche ridurre il livello dei servizi, per esempio allungando le liste d’attesa. Non è automatico quindi che si arrivi poi dappertutto alle stessa cifra per la stessa prestazione. È chiaro che per ottenere questi miglioramenti si devono attivare le autorità locali e ci deve essere un monitoraggio attento da parte del ministero della Sanità. Inoltre…
Inoltre?
È necessario rendere obbligatorio l’acquisto in pool di presidi e prodotti, come siringhe, farmaci, ecc. Se l’acquisto viene fatto dalla singola Asl il prezzo dipende infatti, dal potere negoziale che questa ha; pertanto possono esserci prezzi molto diversi tra un’Asl e un’altra. Ma se vengono fatti in pool per tutta la regione si otterrebbero sicuramente dei miglioramenti. In Lombardia questa prassi c’è già da qualche anno, credo sia stata la prima regione a introdurre il pool negli acquisti delle Asl. E questa è una strada da seguire. Poi, oltre alla sanità, tra le spese più rilevanti delle regioni ci sono anche quelle per i trasporti.
Anche lì si possono ottenere risparmi.
Anche lì si andrà verso un costo standard nazionale. Tuttavia, anche senza costo standard nazionale le regioni potrebbero attivarsi.
Cosa poterebbero fare?
Il Veneto, per esempio, ha stimato i suoi costi standard, stabilendo un costo per vettura al chilometro sulla base del quale calcolare il finanziamento delle singole aziende. La tendenza è questa, gradualmente si andrà verso questo obiettivo perché si è visto che ci sono forti scostamenti tra i costi effettivi per vettura/chilometro e i costi standard. Le faccio qualche esempio.
Prego.
Abbiamo visto che ci sono accordi contrattuali diversi fra città e città, con aziende che hanno stipulato accordi più generosi nella parte integrativa. Ci sono differenze cospicue tra azienda e azienda che non sono del tutto giustificate. Perché poi le amministrazioni più generose sono quelle che battono alla cassa pubblica. Queste differenze si hanno soprattutto nelle grandi città dove il potere di pressione dei sindacati è molto forte, perché se si fermano i trasporti pubblici si blocca la città. Però nella situazione attuale della finanza pubblica diventa obbligatorio cercare di sistemare queste differenze, quantomeno di ridurle. Senza però penalizzare il trasporto pubblico nel suo complesso. I mezzi sono vecchi e vanno rinnovati. Credo tuttavia che ci sia spazio per tagliare qualche costo che oggi è eccessivo.
Ad esempio?
Le spese di manutenzione degli autobus probabilmente potrebbero essere effettuate a costi più bassi facendo una convenzione con qualche grosso operatore. Si potrebbe risparmiare anche sugli acquisti dei mezzi. Oggi ogni azienda ha i suoi. Ma se anziché fare una gara per acquistare dieci autobus la facessimo per acquistarne 100, 200, sarebbe diverso. E modelli standardizzati, perché non è detto che debbano essere diversi da città a città. Penso che due o tre tipi bastino. Anche lì si possono ottenere risparmi; la strada da percorrere quindi è questa.
Sprechi potrebbero annidarsi anche nelle partecipate, non crede?
Le regioni hanno una pletora di enti e società che forse andrebbe sfoltita. Tornando al trasporto locale va detto che anche se difficilmente si riesce a pareggiare i conti, l’obiettivo dovrebbe comunque essere quello di minimizzare il contributo pubblico offrendo un servizio decente. Speriamo che si faccia un po’ di strada in questa direzione. C’è un pericolo.
Quale pericolo?
Che si facciano le cose troppo in fretta. Il rischio di questi anni e mesi è che si prendano misure eccessivamente affrettate per via della pressione internazionale, dello spread, ecc. che spesso non sono i provvedimenti giusti. Sulla fiscalità vediamo, ad esempi,o che le norme cambiano in continuazione e si è creata una situazione estremamente confusa. Sulle province è più o meno la stessa storia: si sopprimono, no si cambiano le funzioni, poi di nuovo si sopprimono, no facciamo una legge costituzionale. Anche le norme sui nuovi comuni cambiano in continuazione, gli Ato (Ambito Territoriale Ottimale, l’unità territoriale che attua i processi di riorganizzazione dei servizi idrici, acquedotto, fognatura e depurazione, ndr) non si sa che fine abbiano fatto. È un periodo molto confuso. Bisogna assolutamente evitare questa frenesia legislativa che crea danni, perché genera incertezza.