Deve aver pensato quanto sia difficile tenere insieme il diavolo e l’acquasanta in questi giorni Matteo Renzi. La sua scelta l’ha fatta quando si è reso conto delle conseguenze che avrebbe avuto l’andare dritto sparato sulla sua strada, l’accordo con Berlusconi, passando sul cadavere di Letta, su quello di Alfano e forse anche su quello di Napolitano. Sarebbe stata una carneficina (politica, ovviamente) di cui avrebbe portato la responsabilità pressoché per intero da solo e che forse non gli avrebbe neppure consegnato la vittoria elettorale, dal momento che si sarebbe votato con il proporzionale puro, dopo la bocciatura del “porcellum”. 



Da qui una correzione di rotta, un triplo salto mortale all’italiana che – a certe condizioni – può consentirgli di salvare capra e cavoli. La capra è la propria leadership, consacrata dalla riscrittura delle regole del gioco della politica italiana, in collaborazione con Berlusconi (che ci guadagna, in cambio, la propria ri-legittimazione). I cavoli sono il governo e la maggioranza che lo sostiene, con il pieno appoggio del Quirinale.



Il passaggio era davvero stretto: Berlusconi aveva messo il veto su doppio turno e preferenze, Alfano minacciava sfracelli per impedire si andasse verso il sistema spagnolo, che avrebbe tagliato fuori la sua creatura dall’assegnazione dei seggi in collegi piccoli, da quattro o cinque deputati ciascuno. 

Al professor Roberto D’Alimonte nei giorni scorsi il difficile compito di trovare una quadra. A questo è servito, ieri, il colloquio con il pleniponteziario berlusconiano in materia di legge elettorale, Denis Verdini. Forse a malincuore, Renzi è stato costretto ad abbandonare i tre sistemi che aveva ipotizzato per cercare l’intesa su un quarto modello, ancora tutto in fieri, ancora fluido, e destinato a essere ritoccato più e più volte nelle prossime settimane. Tre sono i punti irrinunciabili: il riparto nazionale dei seggi fra le coalizioni (che piace ad Alfano e non dispiace alle forze più piccole), le liste bloccate e il premio di maggioranza (che scatta al 35%, o forse al 40, per evitare i rischi di una nuova pronuncia di incostituzionalità). 



A questo punto il sistema spagnolo diventa assai meno spagnolo e molto più italiano, accontenta quasi tutti. Certo, i piccoli sono spaventati da una soglia del 4 o addirittura del 5 per cento per chi è in coalizione (e dell’8-10%) per chi sta fuori. E per mettere i bastoni fra le ruote all’intesa hanno rilanciato la battaglia per l’introduzione delle preferenze con lo slogan, che Alfano ha fatto subito suo, del no al parlamento dei nominati.

Il leader di Nuovo Centrodestra ha cantato vittoria per aver fatto saltare l’intesa sul modello spagnolo, che avrebbe “ucciso in culla” la sua fragile creatura, e si accinge a sedersi anche lui al tavolo della trattativa. Con Renzi è aperto un canale di dialogo piuttosto promettente, un terreno di intesa non è impossibile da trovare. 

Anche a Palazzo Chigi dopo il colloquio di sabato si è tirato un mezzo sospiro di sollievo. Letta e i suoi hanno preferito vedere il bicchiere mezzo pieno, sottolineando che l’intesa non riguarda solo la legge elettorale, ma anche due riforme costituzionali, il superamento del bicameralismo perfetto (cioè la marginalizzazione del Senato), e la riscrittura del titolo V della Carta, per far chiarezza fra le competenze statali e quelle delle regioni. Simili riforme, è il ragionamento, richiedono tempi lunghi, e questo chiude definitivamente la finestra elettorale del 2014. 

Letta si rende perfettamente conto però che il suo governo ha il fiato corto, e di conseguenza che dovrà cercare un nuovo slancio. Per ottenerlo non basterà una robusta intesa programmatica sulle cose da fare. Per interpretare “Impegno 2014”, il nome del patto di governo cui si lavora in questi giorni, serviranno anche nuovi e più credibili attori. Non sarà facile, ma il rimpasto è diventato ormai una necessità imprescindibile. Nel toto rimpastandi i nomi che circolano sono parecchi: De Girolamo, Cancellieri, Giovannini, Zanonato, D’Alia, e forse persino Saccomanni. Anche ad Alfano potrebbe essere chiesto di scegliere fra il ruolo di vicepremier e quello di ministro dell’Interno. 

Qui si ponte un serio problema per Renzi, se far entrare o no al governo alcuni dei suoi uomini di fiducia. Enrico Letta si augura di sì, perché almeno non correrà il rischio di essere visto al Nazareno come un semplice governo “amico”. Per governare per un anno non basta un tiepido appoggio da parte del proprio partito.