La si pensi come si vuole sui contenuti, sulle forme, sugli esiti preconizzabili dell’opera di selettiva demolizione che Matteo Renzi sta conducendo nella (ex) foresta pietrificata del centro-sinistra italiano, un dato è certo. Niente sarà più come prima perché “il prima” è stato asfaltato. Un processo di profondo rinnovamento è in corso ed esso ha investito uomini e contenuti programmatici essendo la forza d’urto politica dei secondi non insensibile alle facce dei primi. Perché se è vero come diceva Massimo D’Alema di Renzi che da quella bocca può uscire di tutto, come da quella di Virna Lisi, è altrettanto vero che per alcune bocche, in un paese che ha imbracciato “i forconi”, vale la regola contraria. Così, sentire concionare uomini simbolo del ventennio Berlusconiano, su “innovazione”, “legalità”, “merito” pare esondare anche i confini dell’ossimoro. Ed imporre qualche domanda.
Perché la questione su cui Scalfari, Mieli, Ferrara, ognuno da angoli diversi, si interrogano in recenti editoriali sul futuro del centro-destra italiano, merita attenzione quale problema sistemico. Quel processo di “ristrutturazione” del centro-sinistra italiano innescato dal “renzismo” è o no il frutto del default di massa di una intera classe dirigente (magari non solo politica)? E se è cosi, se è vero quello che vediamo sotto i nostri occhi: un paese straziato da vent’anni d’immobilismo, che ha evitato il crac finanziario per un soffio ma non il collasso economico, questo processo non avrebbe dovuto essere simmetrico? Riguardare a fortiori chi ha avuto pari o superiori responsabilità di governo (si parva licet memoriae, Berlusconi ha retto il paese per circa otto degli ultimi tredici anni). Avrebbe dovuto. Dovrebbe. Altrimenti il futuro sistema politico italiano rischia di camminare con una gamba sola. Ma qui la questione si fa notoriamente più complessa per due ordini di motivi che si compenetrano. L’assenza di un contenitore rispondente a dinamiche democratiche, dunque contendibile , la permanenza di una significativa forza elettorale di Berlusconi.
Quanto al primo requisito è fin troppo banale osservare che un Renzi (vero) nell’attuale configurazione “proprietaria” del maggior partito di centro-destra sarebbe morto in culla semmai fosse stato concepito. E coloro che volessero a lui ispirarsi per ascriversi un processo di radicale rinnovamento (facce e idee fresche finalmente in armonia) dell’altro emisfero politico – un nome a caso, il giovane sindaco di Pavia, in testa alle più recenti classifiche di gradimento tra i sindaci italiani di IPR marketing – sarebbero sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio. Ed infatti è semplicemente inconcepibile. Al più è lecito prendere il coraggio a due mani e dichiararsi “diversamente berlusconiani”, nella speranza che il nuovo sistema elettorale, nella sua finale configurazione, non faccia domani rimangiare anche quello. Nessuna gaiezza iconoclasta è lontanamente ipotizzabile, nessun (vero) ricambio d’aria possibile, fino a quando non esisterà un terreno di confronto con “ordinarie” (nei partiti occidentali) regole del gioco; regole, per intendersi ancora meglio, diverse dal “beauty contest” che incoronerà Toti o dalla successione dinastica.
Il secondo ordine di motivi che ostacola il corrispondente evolversi del sistema politico italiano anche nel suo emisfero di centro-destra è la resilienza elettorale di Berlusconi. Tale forza, che accredita ancora Forza Italia di un 20-22% avrebbe anche dell’inspiegabile se accostata al drammatico legato (non solo economico) del suo ventennale dominio della politica italiana ed al generale vento di livore che soffia, non ingiustificatamente, su un’intera classe politica. E tuttavia le due cose sono una la spiegazione dell’altra. Berlusconi è elettoralmente forte per ciò che ha fatto, ma soprattutto per quello che non ha fatto. Quello che ha fatto, e quello che si è guardato bene dal fare, sono in rapporto eziologico con la crisi sistemica in cui si è impantanato il paese. Non si comprende bene il fenomeno Berlusconi se non lo s’inquadra in una visione sistematicamente “marketing oriented” della politica (e di conseguente vista corta).
Non ha nulla di casuale che la spesa corrente al netto degli interessi dal 2001 al 2009 è passata da poco meno il 40% al circa il 48% del Pil (anche, negli ultimi anni, a causa del calo del reddito nazionale), che la pubblica amministrazione nei governi Berlusconi è rimasta sostanzialmente un sacrario inviolato dall’esangue produttività, che gli interessi arroccati nelle corporazioni non si sono toccati e non ci si è posti il problema di aprire i mercati protetti, che l’evasione e la corruzione non sono state aggredite (anche culturalmente), con strumenti straordinari, quali ipoteche economiche incompatibili con lo sviluppo italiano in un contesto di competizione tra paesi.
Il non fare o il costruire l’agenda politica secondo ciò che la sondaggista di fiducia indica quali “desiderata” collettivi, è stato parte delle strategie per l’acquisizione e la gestione del consenso. Ma in un mondo globalizzato che correva e ci metteva fuori mercato tali politiche sono state veleno. La storia ci ha consegnato il più grande follower di successo la cui gestione democristiana 2.0, scientificamente evoluta, ne ha preservato uno zoccolo duro di consenso. Ma se la linea economica di un partito la fa la Ghisleri con il suo istituto demoscopico -sull’IMU o su altro- l’effetto sarà un’ alterazione dell’efficienza del mercato del consenso; una sorta di gara truccata dal doping di una politica ciecamente “poll-oriented” i cui steroidi vengono fatti pagare, come è stato, al corpo della nazione.
La forza di Berlusconi è dunque la sua debolezza che lo ha consegnato alla storia europea come “unfit to govern”. Ma chi ha il coraggio di alzare il ditino e dirlo nel centro destra? Qualcuno un seme dovrà pur gettarlo prima o poi.
Senonché le condizioni necessarie, e non sufficienti, perché questo seme non cada nel deserto sono un sistema elettorale che non uccida l’embrione, una netta collocazione del soggetto politico in posizione alternativa al centro-sinistra, se non in termini di categorie politiche in termini di constituency, di blocco sociale di riferimento che non potrebbe essere che quello dei “produttori”, una linea politica che, superando anche per queste vie l’anomalia italiana, lo raccordi ai maggiori partiti di centro destra europei e dunque lo ponga in posizione irrimediabilmente critica con il ventennio berlusconiano (un partito “diversamente thatcheriano” o “diversamente merkeliano” …), una classe dirigente (per quanto giusto e possibile) nuova con un orizzonte di lungo periodo che accetti serenamente, tra i suoi passaggi di crescita, la sconfitta alle prossime elezioni ed un fase di opposizione al “renzismo”. Condizioni necessarie ma non sufficienti. Lo start-up di un partito, se non hai “Publitalia” alle spalle ed una robusta attrezzatura economica e mediatica, non è cosa da poco. Se poi hai, come naturale competitor un partito invece dotato di quei mezzi ed ancora molto forte demoscopicamente, l’opera appare davvero improba.
Tuttavia questa situazione di stallo, che nel diritto della concorrenza (in questo caso del mercato politico) è considerata sub-ottimale, non andrebbe letta sub species aeternitatis. Perché la politica italiana è oggi una metaforica banchisa artica, solo apparentemente solida, in realtà nessuno sa quale sarà la sua prossima forma. Il segreto di pulcinella di cui parla il direttore Ferrara è la ormai decisa successione in casa di Marina affiancata da uno stuolo di “volti nuovi”, nella continuità della linea aziendalista, quando i tempi lo richiederanno. Questo paese, è noto, non ha (più) poteri forti. Ma interessi organizzati si. In quel passaggio, che sarà cruciale per gli assetti politici futuri italiani ed europei, questi interessi rimarranno alla finestra o vorranno essere parte attiva per aiutare a superare la zoppia italiana mettendosi al servizio di un progetto di ristrutturazione del centro-destra italiano?