Il ministro Del Rio, che pur fa da paciere, dipinge Enrico Letta e Matteo Renzi come “due giocatori che non si parlano negli spogliatoi”. È certamente un fatto negativo per la situazione nazionale, ma, d’altra parte, che il segretario del partito di maggioranza relativa voglia fare il capo del governo è una “regola” sin da quando Aldo Moro stava a Piazza del Gesù e Amintore Fanfani a Palazzo Chigi fino a Massimo D’Alema contro Romano Prodi.
Matteo Renzi sta però gestendo la modifica della legge elettorale ottenendo già risultati importanti. Il primo è quello di essere uscito dalla dimensione del “grillo parlante”, del controcanto negativo di chi segue passivamente il “fare” del governo Letta. Oggi anche Renzi è sulla scena del “fare” ed ha guadagnato terreno.
Gli si rimprovera di aver riportato sulla scena Berlusconi. Ma proprio questo è un risultato che per Renzi offre due vantaggi. Il primo consiste nell’evitare un rinnovamento e un rilancio dell’alternativa di centro-destra. Renzi e il Pd hanno tutto l’interesse ad avere contro, nel momento elettorale, o un Berlusconi assediato o, come è più probabile, un suo “uomo (o donna) di paglia” piuttosto che un leader nuovo con una personalità autonoma e credibile.
A ciò si aggiunge un altro vantaggio non secondario. L’archiviazione dell’antiberlusconismo, il “Caimano” nella sede del Pd e conseguentemente l’esaltazione tributata a Renzi da Berlusconi e dai suoi media hanno aperto le porte ad una penetrazione del leader del Pd nell’elettorato moderato ed anche tradizionalmente berlusconiano.
Oggi la forza di attrazione di Berlusconi non è nel suscitare attese per il suo agire. Ha più volte vinto le elezioni senza – per sua ammissione – riuscire a realizzare i propri progetti e sfasciando la maggioranza. Colpa dei traditori, dei magistrati, degli organi di garanzia faziosi? Può darsi. Il Cavaliere comunque non è un leader del “fare” e il suo partito ha le sembianze del “vertice di famiglia e di azienda”. Ma Berlusconi ha pur sempre – come si è visto nel 2013 – un grande consenso basato essenzialmente su due “paure” ben radicate: per la sinistra illiberale e per la sinistra delle tasse.
La prima paura Renzi l’ha in buona parte smontata con un riconoscimento che gli viene dallo stesso Berlusconi. Per il sindaco di Firenze rimane quindi da superare lo scoglio di un’immagine di politica economica che non sia punitiva verso il ceto medio e l’imprenditoria media e piccola. Finora, in proposito, Renzi ha fatto affermazioni generiche e i suoi collaboratori ne hanno fatte di imprudenti ed anche inquietanti.
Da parte sua Enrico Letta, proprio sul tema che vede ancora fragile Renzi, è apparso anch’egli traballante. Il ministro dell’economia è oggi il punto di maggiore debolezza del governo con il rischio di logorare Alfano. L’alternativa centrista a Berlusconi non è riuscita a decollare in questi due anni, nonostante i tentativi, perché a cominciare da Monti si è presentata con il volto della tassazione senza sostanziali tagli alla spesa pubblica. I costi della politica (stipendi e auto blu) sono palliativi mediatici.
La paura di altre tasse è lo “zoccolo duro” di Berlusconi che può anche dilatarsi nella scelta finale dell’esercito degli “indecisi” che attualmente si sottrae ai radar dei sondaggisti.
Di certo se la legge elettorale va in porto Matteo Renzi si accredita come leader concreto e innovativo.
La minaccia di bocciarla – a tradimento – nel voto segreto non sembra credibile in quanto in quel caso, a ragione, Renzi avrebbe il consenso del capo dello Stato a sciogliere un Parlamento di nominati incapace e/o contrario di fronte alla necessità di riforme elettorali e istituzionali.
I “pro” e i “contro” sulle preferenze possono servire per contare gli schieramenti sulla carta, ma è difficile che determinino uno scontro parlamentare fino al voto segreto. L’argomento non è popolare anche se le motivazioni sono sensate: le preferenze esistono per eleggere nei Comuni, nelle Regioni e nel Parlamento europeo e l’alternativa delle “primarie” non è molto convincente in quanto si tratta pur sempre di preferenze che possono venire ancor più facilmente organizzate e controllate da “boss” territoriali, spostate o acquisite a “pacchetti”. Ma quella sulle preferenze è una battaglia di retroguardia che non appassiona l’opinione pubblica. Ormai il “potere” che l’elettore sente come proprio consiste nell’indicare la coalizione vincente e il suo leader. Il singolo parlamentare è troppo “in basso” per essere considerato dall’elettore il proprio rappresentante. Ci si sente gratificati e rappresentati se si vota una “celebrità”, nel decidere chi tra i “grandi leader”− showman che gareggiano sugli schermi televisivi − sarà il vincente.
Il sistema politico è in continua fibrillazione e trasformazione. Non sono ipotizzabili ritorni al passato. Un tempo le segreterie dei partiti (soprattutto di sinistra) erano definite “sancta sanctorum” o “stato maggiore”. Oggi sono “staff” omogenei, esecutivi e obbedienti. È un bene? E’ un male? È comunque un processo che continua ad accentuarsi con commenti prevalentemente favorevoli.