Una settimana fa sembrava tutto facile: all’indomani dello storico faccia a faccia fra Renzi e Berlusconi, pareva che la strada delle riforme, legge elettorale e non solo, fosse tracciata, fosse sostanzialmente in discesa. Sono bastati una manciata di giorni perche i frenatori si organizzassero per rendere difficile la vita a quell’intesa, al punto da rischiare di metterla in discussione.
La principale leva su cui agisce il fronte contrario è quella delle introduzione delle preferenze. Cancellate vent’anni fa da un doppio referendum perché ritenute pericoloso terreno per potentati più o meno leciti, oggi le preferenze vengono sbandierate come irrinunciabile istituto democratico. Il Nuovo centro destra di Alfano ne ha fatto il proprio vessillo, ma gli stessi argomenti vengono usati dai centristi e dalla minoranza interna al Pd.
Tutti sanno che il no al ritorno al voto di preferenza è il prezzo richiesto da Berlusconi per aderire all’intesa, e che quindi colpire in quel punto il vasto accordo, vuol dire farlo saltare. Vuol dire vanificarlo. Il Cavaliere ha ceduto sul doppio turno eventuale, ma sulle preferenze non può, perché il suo rimane dopo vent’anni ancora un partito totalmente carismatico, che non potrebbe imbarcare alleati assai più bravi a manovrare pacchetti di voti. Un esempio per tutti, l’Udc di Casini.
La questione è tanto chiara che proprio sulla reintroduzione delle preferenze ha concentrato tutta la sua potenza di fuoco il fronte antirenziano dentro il Pd. Il sindaco di Firenze, che ha spiegato non essere pregiudizialmente contrario alle preferenze, si giocherà una discreta fetta di credibilità nel dimostrare di sapere mantenere la parola data a Berlusconi. Non a caso Maria Elena Boschi ha richiamato i suoi alla disciplina di partito, subito dopo l’incontro dei componenti democratici della commissione Affari costituzionali della Camera. Come a voler ricordare che su una materia tanto delicata non sono ammessi voti di coscienza.
A complicare le cose ci si è messa anche una fuga in avanti di Brunetta, secondo cui subito dopo aver approvato la nuova legge elettorale si tornerà a votare. Ne sono seguiti gli anatemi dei collaboratori di Renzi, ma soprattutto gli interventi di Verdini, e dello stesso Berlusconi che nel videomessaggio del ventennale della discesa in campo ha fatto chiara allusione a un ampio ventaglio di riforme, quelle “che noi auspichiamo da anni e che finalmente anche la sinistra sembra voler auspicare”. Quindi non solo legge elettorale.
Risolto in un lampo il caso Brunetta, subito dopo è stato chiaro che l’anello debole di questa fase politica è il governo. Le dimissioni di Nunzia De Girolamo affrettano i tempi del rimpasto e della sottoscrizione del nuovo patto di governo.
Del resto, se la De Girolamo è scivolata sulle intercettazioni telefoniche, difficilmente potrà resistere ancora Anna Maria Cancellieri. Ora Renzi è a un bivio: l’idea di andare al voto a giugno non lo appassiona, perché probabilmente vorrebbe dire votare con il “consultellum”, il sistema risultante dalla sentenza della Corte costituzionale, proporzionale puro con le preferenze. Vorrebbe dire essere condannato a fare le larghe intese, con Berlusconi e non con Alfano.
Da qui la necessità di puntellare Letta, anche per l’incertezza di cosa farebbe Napolitano nel caso in cui il fragile quadro politico costruito attorno alle riforme dovesse franare. Il capo dello Stato vivrebbe lo scioglimento delle Camere come l’ammissione del proprio fallimento, e i quirinalisti si esercitano a prevedere se le sue dimissioni arriverebbero prima del voto (per non dover firmare il decreto di scioglimento), oppure non appena insediato il nuovo parlamento (magari con un annuncio “a tempo”, stile papa Benedetto XVI).
Confusione massima, insomma. Nella settimana in cui la riforma elettorale approderà nell’aula della Camera, e ciascuno dovrà assumersi le proprie responsabilità, è sempre più chiaro che le riforme si faranno solo se l’asse Renzi-Berlusconi reggerà. Il sindaco-segretario ne pare tanto convinto da lanciare il suo monito via twitter: “I conservatori non mollano, resistono, sperano nella palude. Ma Italia cambierà, dalla legge elettorale al lavoro. Questa è la volta buona”. Lui, di sicuro, ci si gioca la faccia.