Se la decisione della Corte d’assise di Palermo mitiga il prossimo appuntamento giudiziario cui sarà sottoposto il capo dello Stato, tutto sembra dimostrare che questo evento processuale non potrà essere derubricato a un mero accidente di percorso. Il conflitto tra la politica e la magistratura, cui Napolitano aveva dedicato buona parte dei suoi sforzi nel corso del primo settennato non senza qualche positivo risultato, è tornato prepotentemente d’attualità, intrecciandosi con l’approdo parlamentare del progetto governativo di riforma della giustizia. Forti critiche sono state già sollevate non solo dall’organismo unitario di rappresentanza della magistratura, ma anche dell’appena rinnovato Csm. E a dispetto di quanto poteva immaginarsi, anche nella nuova composizione l’organo di governo autonomo dei magistrati ordinari non si presenta più remissivo e prono alle proposte del governo. 



Non stupisce allora che il capo dello Stato sia stato nuovamente coinvolto in un’inchiesta così politicamente delicata, quando già la Corte costituzionale aveva dichiarato senza mezzi termini il divieto di utilizzare le intercettazioni casuali delle conversazioni telefoniche del presidente. Certo, i termini del richiesto intervento presidenziale sono diversi, ma lo spirito investigativo non sembra mutato. Ma stavolta il ricorso al conflitto di attribuzione non è possibile.



La coincidenza temporale tra questa vicenda e l’amara dichiarazione del capo dello Stato circa l’inefficacia dei suoi ripetuti appelli al Parlamento circa l’elezione dei due giudici della Corte costituzionale, solleva qualche interrogativo di non poco conto sulla fondatezza delle tesi che sino a poco tempo fa venivano sbandierate sul cosiddetto “presidenzialismo di fatto”. Napolitano avrebbe dunque perso d’un sol colpo la sua posizione di “re Giorgio”, dovendosi quindi inchinare alla magistratura inquirente e a un Parlamento riottoso? In vero, l’interventismo presidenziale che si è manifestato in tanti modi e forme nel corso del primo settennato è sembrato subito appannarsi con l’inizio del secondo mandato, anche se il discorso di insediamento del 2013 resterà nella storia repubblicana per la crudezza delle critiche rivolte dal capo dello Stato alle stesse forze politiche che lo avevano appena rieletto, quasi implorandogli di accettare quel rinnovo della carica che egli aveva anche pubblicamente negato. 



La vera ragione del modificarsi del ruolo presidenziale risiede, a ben vedere, nelle condizioni di contesto nelle quali il presidente si è venuto a trovare sin dal momento della sua elezione e che egli, senza alcun velo, ha chiaramente esposto nel predetto discorso di insediamento. “Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese”. E quindi specificava: “Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione ‘salvifica’ delle mie funzioni; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”.  

Insomma, in queste parole si legge la consapevolezza di intraprendere un nuovo mandato non destinato a concludersi alla scadenza del settennato, ma subordinato a precise condizioni esterne — soprattutto di carattere istituzionale — e personali che ne possono determinare la cessazione anticipata.  

Così, il secondo settennato di Napolitano si è legato sin dall’inizio alla forza del rapporto tra governo-parlamento che egli stesso sarebbe stato capace di individuare e maieuticamente far emergere a seguito di un risultato elettorale a prima vista “bloccato”. Certo, i governi Letta e poi Renzi sono nati come governi sotto tutela presidenziale, ma a loro volta hanno condizionato e condizionano la figura presidenziale. Sin quando reggerà il suo governo, adesso presieduto da Renzi, Napolitano resterà saldo; ma quando l’esecutivo mostra crepe e incertezze nell’azione politica interna ed internazionale, come quelle sempre più evidenti negli ultimi tempi, il ruolo di Capo dello Stato subisce inevitabili contraccolpi, così favorendo chi intende riaprire vecchie ferite o individuarne di nuove.