“Il Pd non è mai stato così subalterno e vincolato alle volontà di Berlusconi e della destra”. A dirlo è Miguel Gotor, senatore bersaniano, dopo la prova di forza voluta (e vinta) da Renzi con il voto di fiducia al Senato sul Jobs Act. “Se sulle riforme istituzionali è giusto interloquire con tutte le forze politiche — spiega Gotor al sussidiario — è sbagliato farlo per altri temi, come ad esempio il lavoro o la giustizia, perché questo configura una condizione consociativa e trasformistica che è una ragione non secondaria della crisi politica che stiamo vivendo”.
Senatore, dopo il discusso passaggio in Senato ci sono i margini per una mediazione politica sul Jobs Act tra le diverse anime del Pd?
Sono convinto di sì. Alla Camera ci sono condizioni più favorevoli per il Governo, che gode di una maggioranza molto più ampia rispetto al Senato, e quindi c’è una maggiore possibilità di azione. Mi riconosco nelle parole del presidente Napolitano che ha dichiarato che il Jobs Act costituisce un passo in avanti, ma che c’è ancora molto da fare. La parola passa ora alla Camera ed è bene che la riforma cambi e migliori senza imporre nuovamente la fiducia, ma grazie al libero contributo del Parlamento.
Voi avete votato sì alla fiducia, però lei, Chiti e altri avete anche presentato un documento. Perché?
Dopo che il Governo ha imposto la fiducia sul provvedimento abbiamo voluto motivare pubblicamente le ragioni che ci hanno spinto a votarla in modo fortemente critico per garantire la voce e l’impegno di un nucleo autenticamente riformista nel Pd. Il documento è stato firmato da 27 senatori e siamo molto soddisfatti di questo risultato, perché è stato raggiunto in condizioni difficili in quanto il segretario del Pd è anche premier e quindi le pressioni raddoppiano e gli spazi di autonomia si riducono.
Qual è la vostra posizione?
Nel documento riconosciamo che, dal nostro punto di vista, sono stati fatti dei passi in avanti perché sono stati accolti tre nostri emendamenti, quelli relativi ai vaucher, al demansionamento senza riduzione salariale e al disboscamento della giungla dei contratti precari che non deve essere solo “eventuale” come era scritto nella versione originaria.
E non vi basta?
Questi progressi non li riteniamo sufficienti. Ci siamo impegnati a continuare alla Camera la nostra battaglia soprattutto su due questioni: la prima riguarda le coperture economiche dei vecchi ammortizzatori sociali e dei nuovi previsti dalla legge, da individuare prima di intervenire sul piano legislativo per non produrre una nuova legge sul lavoro che rischia di rimanere inapplicata e inefficace; la seconda riguarda l’articolo 18, che deve essere riformato (e soltanto per i nuovi assunti) e non abolito per tutti come vorrebbero Sacconi e Ncd.
Riformato come?
Sarà necessario chiarire che esso resta in vigore anche per i licenziamenti ingiusti di carattere disciplinare, perché non è possibile che in uno stesso luogo di lavoro e con una medesima tipologia contrattuale a tempo indeterminato ci siano dei vecchi lavoratori tutelati dall’articolo 18 e dei nuovi privi di quella garanzia. Questo, tra l’altro, non conviene neppure all’impresa: si avrà l’effetto di irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro in quanto chi è tutelato dall’articolo 18 non accederà mai a un nuovo contratto che non lo prevede.
Avete chiesto la firma anche di alcuni deputati, perché?
Come segnale politico di questa staffetta tra Senato e Camera. Lo hanno firmato 9 deputati che fanno parte della direzione nazionale del Pd, fra cui l’ex segretario Guglielmo Epifani e il presidente della Commissione lavoro Cesare Damiano.
Veniamo al Pd. Può un partito, oggi, vantarsi più del consenso e meno delle tessere, e al tempo stesso essere così poco liberale sulla disciplina interna?
L’atto di non votare la fiducia che hanno compiuto tre senatori Pd su 109 è grave e non è giusto che passi sotto silenzio. Tuttavia credo che sia saggio graduare gli interventi di carattere disciplinare, escludendo quello dell’espulsione. Un partito che aumenta i voti e diminuisce le tessere si mette in una condizione potenziale di grave debolezza perché, se e quando i voti diminuiranno, la crisi del progetto Pd si farà conclamata tra il giubilo della destra e di M5S. Sarebbe meglio prevenire invece che curare. Mi ha fatto piacere constatare che Renzi abbia riconosciuto il problema e abbia deciso di dedicare una direzione del partito all’argomento.
E’ vero quello che dice Civati, cioè che il Pd non aveva nel suo programma una riforma come quella che Renzi sta facendo?
Certo che è vero e infatti non lo dice solo Civati. Basta leggere il programma del Pd del 2013 o quelli di tutti i candidati alle primarie, Renzi compreso, per constatarlo. E dopo la riforma Fornero dell’articolo 18 del 2012 nessuno avrebbe pensato che il tema sarebbe tornato all’ordine del giorno in modo così prepotentemente ideologico. Basti pensare che ho sentito con le mie orecchie, soltanto all’inizio di settembre, esponenti del Governo e il responsabile economico del Pd dichiarare che chi voleva sollevare ancora la questione dell’articolo 18 lo faceva in realtà in modo strumentale, con l’obiettivo di sabotare la riforma del lavoro…
Vada avanti.
E’ sufficiente andare su internet per vedere decine di video di Renzi, sin dai tempi delle primarie del 2012 in cui si era posizionato su posizioni filo-montiane, sostenere una semplice verità che tutti sanno: nessun imprenditore ritiene che l’articolo 18 sia la causa della rigidità del mercato del lavoro in Italia e nessun imprenditore si è rifiutato di investire nel nostro Paese per questa ragione.
Ma allora perché questo repentino cambio di programma?
All’improvviso si è cambiata idea per un problema di rapporti e di debolezza interni alla maggioranza: la bandiera ideologica dell’articolo 18 è l’unica che può tenere ancora unito Ncd, dove almeno una decina di senatori sarebbero disposti a ritornare tra le file di Forza Italia. Un problema serissimo per il Governo, perché obbligherebbe a un cambio di maggioranza, rendendo politicamente manifesto il ruolo di condizionamento che già esercita oggi Berlusconi.
Come valuta, nel complesso, le scelte di Renzi nei confronti di Berlusconi?
Non bisogna mai dimenticare che il governo Renzi nasce all’indomani dell’imprevista spaccatura della destra ottenuta da Enrico Letta e ha l’effetto strategico di riportare Berlusconi, che altrimenti avrebbe rischiato la definitiva marginalizzazione, al centro del gioco politico con il cosiddetto Patto del Nazareno. Renzi si muove con abilità tra la Scilla di Ncd e la Cariddi di FI e ha bisogno di sfruttare le debolezze di entrambi.
Ma concede anche loro qualcosa, o no?
Appunto. Il problema è che per mantenere questo precario equilibrio Renzi è costretto a fare politiche in grado di compiacere le due destre (quella ufficiale di governo e quella sedicente all’opposizione) accompagnandole con una retorica del cambiamento senza aggettivi che traveste una condizione di trasformismo e di consociativismo che non aiuta l’Italia a uscire dalla sua crisi, perché ne è la principale responsabile.
Quindi?
Renzi avrebbe i numeri e le qualità personali per riuscire a imporre la sua politica, ma per prendere il potere si è stretto in una condizione che lo porta a fare la politica degli altri non solo sulla riforma del Senato, ma anche sulla legge elettorale, il lavoro e, lo si capirà presto, la giustizia e i diritti civili. Il Pd non è mai stato così forte sul piano quantitativo e debole su quello qualitativo, della capacità di imporre la propria energia e identità politica. I limiti strategici di Renzi mi ricordano quelli di Craxi che, a parole, diceva di voler essere l’alternativa alla Dc e il protagonista della modernizzazione del Paese, ma nei fatti ci governava insieme, avvinghiandosi in modo sempre più stretto. Sappiamo tutti come è andata a finire.
Ora come intendete muovervi rispetto al voto alla Camera?
Alla Camera ci sono numeri diversi e più favorevoli, perché Ncd non ha più quel potere di ricatto che aveva al Senato, dove il Governo può contare su una maggioranza di soltanto 7 senatori e dunque ogni singolo voto pesa moltissimo. L’obiettivo minimo è realizzare il deliberato della direzione nazionale del Pd: uscire dunque dall’ambiguità sull’articolo 18 che Sacconi è riuscito a imporre al Governo e impegnarsi per garantire la possibilità del reintegro anche per i licenziamenti senza giusta causa di carattere disciplinare, stabilendo che ciò avverrà solo per i nuovi assunti.
Si ha la sensazione che Renzi voglia andare avanti senza guardare nessuno. E’ così?
Al di là della retorica e delle posture propagandistiche amplificate dai media fin quando riterranno utile farlo, Renzi va avanti guardando in modo particolare Verdini e Berlusconi. Ho avuto modo di constatarlo direttamente ai tempi della riforma del Senato, quando mi sono battuto per un ruolo di maggiore garanzia del futuro presidente della Repubblica nel nuovo sistema istituzionale. In quel passaggio il condizionamento di Verdini è stato evidente perché tutti riconoscevano pubblicamente il problema, a partire dal ministro Boschi, ma nessuno ha avuto la necessaria autonomia politica per affrontarlo e risolverlo. In quella circostanza il Pd del 40 per cento non ha fatto politica, ma il pesce in barile.
Farete sponda sui sindacati? Lei andrà in piazza il 25?
Per quanto riguarda il mondo sindacale auspico che ci sia una maggiore interlocuzione perché il muro contro muro che il Governo sta portando avanti con le parti sociali rientra in un disegno più ampio di cercare il consenso presso l’elettorato di Forza Italia, assumendo slogan e parole d’ordine della destra. Non andrò alla manifestazione della Cgil se in queste due settimane prevarranno posizioni oltranziste anche nel sindacato, come alcune dichiarazioni di queste ore lasciano intravedere.
Il consenso di Renzi non sembra diminuire. Perché secondo lei?
L’asse preferenziale con Berlusconi e’ un dato di fatto politico, e, come le dicevo, il Pd non è mai stato così subalterno e vincolato alle volontà di Berlusconi e della destra. E’ proprio questa condizione di paradossale minorità a costituire una delle ragioni del successo trasversale di Renzi presso l’opinione pubblica italiana e parte della sua classe dirigente. Ma nei miei giri per l’Italia, ho la sensazione che gli iscritti e gli elettori del Pd comincino a rendersene conto.
(Federico Ferraù)