Quali spiritelli rivoluzionari di governo abbiano fatto ballare i 104 tavoli della Leopolda è difficile dire, per ora. L’importanza della Leopolda n. 5 sta, in realtà, in Piazza San Giovanni, a più di 300 chilometri di distanza. Lungo la traiettoria che lega la vecchia stazione fiorentina e l’antica piazza romana, riempita da un milione di persone o forse meno, si è consumata una rottura politico-istituzionale, che chiude un’epoca e ne apre un’altra.
Nell’epoca precedente — o, forse meglio, nell’era geologica precedente — girava a pieno ritmo una cinghia di trasmissione nella sinistra: il Partito prendeva decisioni politiche, il Sindacato si allineava, spesso obtorto collo. Capitò al grande Di Vittorio, quando dovette sconfessare il proprio no all’invasione sovietica dell’Ungheria. Fino agli anni Sessanta gli esponenti del sindacato sedevano in Parlamento, a garanzia che i meccanismi di trasmissione fossero ben oliati. L’ultimo episodio accadde quando il riformista Luciano Lama, segretario generale della Cgil, benché personalmente contrario al referendum berlingueriano sulla scala mobile, si dovette piegare al Segretario del Partito (le maiuscole, allora, avevano un senso!).
Ma con lo scioglimento del Partito e la sua trasformazione in partito dopo il 1989, il movimento della cinghia di trasmissione di invertì. Ormai era il sindacato che sosteneva il partito, in termini di iscritti e di elettori, e gli dettava al linea. Lo scontro tra il dott. Cofferati, come D’Alema lo apostrofò beffardamente nel Congresso di Roma del 1998, e il D’Alema medesimo segnalò una resistenza del partito all’inversione del movimento della cinghia di trasmissione. D’Alema ne uscì sconfitto. Fu il sindacato, e non il partito, nel 2002 a mobilitarsi vittoriosamente contro il da poco nato governo Berlusconi.
Sabato 25 ottobre 2014 la cinghia si è spezzata per sempre. Al milione in piazza San Giovanni Renzi ha contrapposto, non senza esagerazione, i 60 milioni di italiani, cui lui parla come capo del governo. Ma anche se fosse stato meno esagerato, poteva sempre opporre i suoi 11 milioni di elettori, di cui solo una parte stavano a Piazza San Giovanni.
Con ciò il Pd si allinea alla sinistra europea, dove il sindacato da tempo non detta più legge ai partiti di sinistra. Non in Inghilterra, dove la Thatcher/Erodiade offrì a Blair la testa dei sindacati su un piatto d’argento; non in Francia, dove la Cgt, dopo la scomparsa del Pcf, si è sempre mossa in maniera autonoma rispetto al Psf e viceversa; non in Germania, dove pure è stato più lungo e intenso l’intreccio e lo scambio di dirigenti tra Spd e sindacati. L’ultimo Schroeder riuscì a concordare con i sindacati la riforma del mercato del lavoro, che ha contribuito a far uscire la Germania dalla crisi socio-economica dell’unificazione a Est, dentro un assetto delle relazioni politico-sindacali in cui il partito teneva conto del proprio elettorato, senza farsi piegare dalle mere compatibilità sindacali. Perciò rifiutò l’alleanza con la Neue Linke e perse le elezioni contro la Merkel.
Questo passaggio epocale Leopolda/Piazza San Giovanni non sarebbe stato possibile, senza una trasformazione della cultura politica del Pd e, soprattutto, senza un conseguente cambiamento della collocazione istituzionale del partito, rispetto alla società e allo Stato.
Quanto alla cultura politica: anche quando il Pci cessò di vivere, rimase pur sempre nel cervello collettivo dei suoi dirigenti e militanti l’idea che i lavoratori siano il soggetto principale della trasformazione, prima rivoluzionaria, ora democratica, del Paese. Come suona l’antica vulgata marxiana: gli interessi di classe del proletariato coincidono con gli interessi generali dell’umanità. Con Gramsci e Togliatti l’umanità si trasformò in “nazione”. Insomma, i lavoratori sono “classe generale”, sono classe nazionale. Dopo il 1989, ai lavoratori fu sostituita una categoria più generale: “il lavoro”. Ancora ieri Il Manifesto redivivo titolava “Forza lavoro” contro la nuova “Forza Italia” di Renzi. Al punto che chi sta in Piazza San Giovanni è classificato “di sinistra”; chi va alla Leopolda sta “a destra”. Renzi ha preso atto che il lavoro non è più un soggetto “di classe”, è una condizione in cui possono stare il precario, il pensionato, il metalmeccanico, il dipendente statale, il dirigente, il manager, l’imprenditore, lo startupper, eccetera. Insomma, il lavoro è interclassista. La sinistra di Renzi non è più classista. Allora, il Pd che cosa diventa? Nel partito di classe, gli iscritti sono la parte più consapevole e politicamente più militante dei lavoratori. Il partito risponde a costoro e costoro rispondono fedelmente al partito. Nel partito aclassista contano gli elettori.
Dal militante all’elettore: questa la traiettoria. Al quali si chiede il consenso sulla base di un programma di governo. Si dissolve con ciò, in primo luogo, la doppiezza storica del Pci-Pds-Ds-Pd: essere partito di lotta e partito di governo, sia quando sta all’opposizione sia quando sta al governo. Salta, con ciò, la residua riserva mentale in forza della quale anche quando “i tuoi” sono al governo, non potranno mai soddisfare fini in fondo le istanze di cambiamento radicale del sistema.
Questa doppiezza si rifletteva nelle strutture istituzionali interne del partito: quando il partito andava al governo, il segretario del partito poteva diventare premier, ma doveva lasciare il posto ad un altro segretario di partito. Così al premier toccava portare verso il calvario la croce del governo, il partito faceva da ala, non sempre benevola, al suo faticoso incedere. Il passaggio dal partito dei militanti al partito degli elettori — che le due location fisiche, Leopolda e Piazza San Giovanni, hanno evidenziato — comporta una cambiamento di collocazione istituzionale del partito rispetto alla società e allo Stato. Nella Prima Repubblica e anche nella Seconda i partiti erano diventati come il Ghino di Tacco, che dall’alto della Rocca di Radicofani controllava le strade per Roma. Erano gli snodi inevitabili di ogni intermediazione tra società civile e Stato, e, naturalmente, facevano pagare il dazio, spesso non solo in senso figurato.
Di questo sistema il Pci e sigle successive hanno fatto parte organica; di più, sono stati l’architrave. Tuttavia, la crescita di cultura, di istruzione, di accesso all’informazione hanno consentito ai cittadini di aggirare i posti di blocco. Fuori di metafora, gli elettori sono diventati mobili e infedeli. Hanno cessato di dare il voto “a tempo indeterminato”, hanno dato luogo a nuovi partiti, nuovi movimenti. Tutto fragile e friabile e volubile, si intende. Ma d’ora in poi le cose staranno così. Il partito degli elettori cerca i voti per governare, il partito dei militanti cerca voti per rappresentare. Si può ben comprendere la profonda ripulsa che un’intera classe politico-intellettuale-giornalistica, che ha costruito le proprie immarcescibili carriere dentro quel sistema, esprime contro questa, che considera una deriva verso altro: insomma verso il renzusconismo, verso un partito di destra, verso un lupo di destra che veste i panni di pecora della sinistra. Significativa la reazione di Rosy Bindi e di tutta la sinistra interna del Pd.
Cambiamento delle basi di classe, nuovo sistema elettorale, tendenziale bipartitismo, primato dell’esecutivo sul Parlamento si tengono logicamente e realmente. Di qui l’angoscia profonda di tutta la sinistra vintage. Si potrebbe solo osservare storicamente che la distinzione destra/sinistra, da quando è insorta, all’epoca di Cromwell, non ha mai cessato di caratterizzare i sistemi politici in Europa, occupando ogni volta crinali diversi. Progresso/conservazione, libertà/eguaglianza. L’albero rivoluzionario della sinistra ottocentesca, piantato sul terreno dell’eguaglianza, richiede oggi di essere trapiantato su altri terreni: lo statuto ontologico della persona, le libertà, la biopolitica, i destini ecologici del pianeta. Si tratta di terre ignote. Come accade spesso, di fronte alle svolte, c’è chi continua a voltarsi indietro, non riesce a vedere i nuovi crinali e, soprattutto, non sa da quale parte collocarsi.