Da una parte il vertice Bce, le parole di Draghi, la borsa che precipita di quasi quattro punti. Dall’altro il corteo degli antagonisti, sospeso tra rabbia, rassegnazione e folklore. Succede a Napoli, mentre il suo sindaco viene sospeso dall’incarico.
Le immagini tv non ci aiutano a capire. E’ come se una nebbia le sottraesse ad ogni sguardo indagatore. Botta e risposta non si corrispondono, appartengono a due mondi diversi.
Che cos’è la Bce per Napoli, e Napoli per la Bce?, si domanderebbe il Principe Amleto.
Si ha l’impressione che la gente non sappia nemmeno cosa sia esattamente una banca centrale, quale sia il suo fondamento di diritto, quali siano le sue mansioni e da dove le venga il potere di metterle in atto.
Si sa che questo potere c’è, che è molto forte, ma la confusione è ugualmente grande. Le facce dei manifestanti di Napoli, più che rabbia esprimevano un profondo spaesamento: perché mai, secondo quali regole condivise questo potere estraneo ha il diritto di esercitarsi su di noi, sulla nostra vita?
C’è uno sbalordimento generale, come se si fosse tornati al tempo della dominazione straniera — e così è, in un certo senso. L’Europa sta rischiando di (ri)diventare una serie di città-stato, estranee le une alle altre se non fosse per la vicinanza geografica (perché l’Europa è piccola), per i beni culturali, per il progetto Erasmus, per la migrazione dei giovani in cerca di lavoro.
Eppure l’Europa fu un vero miracolo della storia. Prima creazione politica originale della civiltà medievale, essa sorse e di affermò in un tempo in cui le comunicazioni erano precarie, e mettersi per strada un’avventura.
Il Papa, l’università e il sogno imperiale furono i tre elementi su cui si fondò la sua esistenza. L’accoglienza e la bellezza (che sono per molti aspetti la stessa cosa) furono di casa qui come in nessun’altra parte del mondo.
Ora, questa immagine gloriosa si trova alla fine del tramonto, prima della notte. Un amico paragonava tutto questo a una casa con un morto dentro, che tutti si rifiutano di considerare morto, anche se presto l’odore li obbligherà a ricredersi — ma allora sarà troppo tardi.
Eppure, il progetto di convivenza che diede vita all’Europa cristiana fu così grande da non essersi dissolto del tutto.
Ho visto alcuni giorni fa un film-documentario che ha riscosso notevole successo all’ultimo festival di Venezia, Io sto con la sposa, dove un gruppo di esuli siriani cerca, dall’Italia, di raggiungere la Svezia, che com’è noto concede la cittadinanza ai profughi di guerra.
Un gruppo misto italo-arabo decide di accompagnare in macchina (con grave rischio per gli italiani) questi poveretti in un viaggio che da Milano li porterà, attraverso Francia Germania e Danimarca, a destinazione. Il titolo si riferisce all’escamotage trovato per poter passare le dogane: un ragazzo e una ragazza del gruppo si travestono da sposi, così che tutto il gruppo si muove come un corteo nuziale.
Colpisce, in questo film — oltre al racconto, mai scontato, che ciascun viaggiatore porta con sé — il contrasto tra un’Europa piovosa e indifferente e l’accoglienza che gruppi di amici delle nazionalità e fedi più diverse riserva a queste persone, al loro arrivo in Francia come in Germania.
Le tappe intermedie, i pernottamenti, le cene di benvenuto sono la cosa più bella del film perché in questi momenti rinasce, come per una nostalgia invincibile, la bellezza di un destino condiviso — magari solo per il breve momento di una cena insieme, di un ballo o di una cantata di augurio, di uno scambio di esperienze tra gente che, presumibilmente, non si incontrerà mai più nella vita.
Io credo profondamente in questa nostalgia, nella quale il progetto europeo, fondato sull’idea (mai scontata) di Bene Comune, rinasce nella memoria, sconfiggendo almeno per poco il particolarismo avido e protervo, capace solo di fare cose brutte, nel quale rischiamo ogni giorno di cadere.