Questo è un tipo di articolo che nessuno può avere voglia di fare. I fatti romani dell’altroieri — quelli di piazza e poi le loro conseguenze sul piano istituzionale — indicano strade future che si può solo sperare di non imboccare. 

Piazza e Parlamento erano come due specchi paralleli, due volti dello stesso problema: troppo angosciosamente uguali tra loro. Abbiamo visto scene che speravamo di non dover vedere più, ma che a me sembrano peggiori di altre volte perché peggiore è il contesto che le ha rese possibili.



Le immagini istericamente trasmesse alla tv e sul web erano rese più dolorose dal fatto che non si riusciva a trovare, in appendice allo sdegno, nessun margine di recupero. 

Al tempo del G8 di Genova esistevano ancora le cosiddette controparti. L’odio politico era molto alto, ci fu della violenza orribile, ma esisteva l’alternanza, che non salva l’anima a nessuno, sia chiaro, ma permetteva di credere nel funzionamento regolare della democrazia.



C’era, come dicevano a sinistra, l’anomalia-Berlusconi, ma oggi possiamo dire che era in ogni caso un’anomalia interna alla democrazia. 

Il caso presente è un po’ diverso. Se vogliamo essere romantici possiamo dire (come ha detto qualcuno) che una polizia di sinistra ha caricato un corteo di sinistra. Ma sarebbe una stupidaggine. Chi se ne frega se nasce una nuova formazione a sinistra del Pd? Fosse solo questo, ci sarebbe da augurarselo caldamente.

Ma il problema non è questo. Il problema è che per ciascuna delle parti la controparte non esiste semplicemente più. Non c’è più un governo “contro” i sindacati, o una destra “contro” la sinistra. Non c’è più il “contro”, perché per essere contro qualcuno bisogna prima averlo riconosciuto come esistente, come l’altro da sé.



Ciò che non riesco a vedere più è questo. Quasi quasi (domando scusa) ero contento di vedere i manifestanti che se le davano di santa ragione con la polizia. Sono stato tentato di considerare i black bloc come il male minore, perché perlomeno trasferivano la rabbia e il disagio sociale nuovamente sulla piazza, come accadeva negli anni Settanta-Ottanta.

Di fronte allo spettro del licenziamento, in un’Italia che viaggia con un 28 per cento (per ora) sotto la soglia di povertà, c’è di peggio che scontrarsi in piazza: c’è la paura di tornare a casa e impiccarsi, o di tornare a casa e uccidere a coltellate la propria famiglia.

Ma quando non si vedono più margini per la democrazia, allora la faccenda si fa terribilmente seria. Dobbiamo domandarci (tutti noi, non soltanto i politici, i sindacalisti, i magistrati, ma tutti, tutti noi) dobbiamo domandarci, ciascuno per sé stesso: ma io la voglio ancora la democrazia? 

Nelle botte e nei litigi in aula dell’altro ieri io riesco a vedere solo l’ombra di un regime, oppure del caos. O il precipizio in una povertà vera e diffusa, in una crisi rispetto alla quale quella presente è una barzelletta, e che rischierà ovviamente di trascinare mezzo mondo nella rovina (compresa la Germania); o l’ascesa di un Uomo Forte, con la perdita della libertà come prezzo da pagare per il risanamento. Dicesi fascismo. 

Io non sono affatto pessimista e — personalmente — non credo in nessuna di queste due alternative. Credo che saremo forti, che riimpareremo a stare insieme (grande tragedia: la disgregazione della compagine sociale, iniziata con l’assassinio del popolo, già tanti anni fa), e che sapremo guardare di più a quello che abbiamo già — genialità, capacità ideativa, capacità progettuale, simpatia innata ecc. — e a mettere in secondo piano quello che non c’è.

Però bisogna cominciare.