Chissà se Matteo Renzi, quando adattava all’Italia la frase di San Francesco d’Assisi sulla Chiesa (“c’è un paese da riparare”) aveva ben presenti tutti gli ostacoli che si stanno affastellando lungo il suo cammino. Rubando allo sci alpino il paragone, dalla discesa libera delle prime settimane siamo arrivati gradualmente allo slalom speciale, pali sempre più stetti e sempre più ravvicinati.



Ultimo intralcio in ordine di tempo il no secco di Giorgio Squinzi all’idea di inserire il Tfr nella busta paga dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Al contrario, il numero uno degli industriali italiani incita il governo ad andare avanti senza tentennamenti sulla riforma del mercato del lavoro e in particolare sul superamento dell’articolo 18. Lo stesso tema su cui la minoranza Pd chiede di evitare il ricorso alla fiducia su un testo che Fassina considera attualmente invotabile. 



In trincea su questo tema c’è in particolare la Cgil, fra minacce di sciopero generale e il tentativo di Vendola, Landini e Civati di dare vita a una coalizione dei diritti. Se la convocazione dei sindacati a Palazzo Chigi, prevista per martedì, sarà solo formale, il solco è destinato ad allargarsi. Ed  difficile che il confronto possa incidere realmente sui contenuti di un provvedimento che Renzi vorrebbe approvato in prima lettura al Senato entro il giorno successivo, quando a Milano si riunirà sotto la presidenza italiana il vertice europeo sulla crescita e la lotta alla disoccupazione. 



Sul fronte europeo poi, è stata del tutto infruttuosa la lotta alla politica made in Germany del rigore di bilancio. E non lascia sperare nulla di buon il sapere che la bozza della legge di stabilità italiana verrà valutato dalla vecchia commissione Barroso e non dall’esecutivo Juncker, che entrerà in funzione solo a novembre e che negli auspici dovrebbe essere più sensibile alle sollecitazioni italo-francesi in tema di flessibilità.

Tutto questo con gli indicatori economici che volgono al brutto, con le riforme costituzionali e della legge elettorale ferme a Montecitorio, con i giudici della Corte costituzionale ancora da eleggere e con un progressivo ingrossarsi delle file degli oppositori dichiarati: a Scalfari si aggiunge ogni giorno un de Bortoli o un Della Valle.

Nei prossimi mesi la strada di Renzi rischia di farsi ancora più accidentata. E la sopravvivenza stessa del governo potrebbe essere a rischio nel momento in cui le differenti opposizioni dovessero cominciare a saldarsi. Sinora Renzi ha goduto della rendita di posizione fortissima della completa assenza di alternative. Questa condizione potrebbe non durare a lungo, ed il primo a essersene reso conto è proprio il presidente. Quei sospetti che ha covato per tutta l’estate hanno trovato conferma pubblica in una serie di piccoli e grandi fatti, come l’editoriale di fuoco del Corriere della Sera di due settimane fa.

Le accuse di immobilismo adombrano scenari alternativi all’attuale, il rischio di un commissariamento della nostra economia (che non ne vuol sapere di ripartire), con l’ombra del governatore della Banca d’Italia Visco a stagliarsi su Palazzo Chigi e quella del numero uno della Bce, Draghi, sul Quirinale. Con o senza la supervisione della Troika europea (stile Grecia), poco importa.

Matteo Renzi non sembra però affatto propenso ad attendere immobile che la situazione gli sfugga di mano. Sino alla fine del semestre europeo non potrà passare al contrattacco. Dal primo gennaio, però, lo scenario potrebbe mutare all’improvviso. Si apre infatti una finestra di opportunità della durata di circa 4 mesi entro cui si potrebbero collocare elezioni politiche anticipate che sarebbe lo stesso premier a provocare e cercare. Sin troppo facile motivarle con l’incapacità del parlamento di vare le riforme. Renzi potrebbe così gestire da Palazzo Chigi un passaggio elettorale che, al momento, lo vedrebbe sicuro vincitore per assenza di alternative credibili. 

Secondario il problema della legge elettorale. Sarebbe possibile votare anche con il consultellum (il brandello di legge elettorale sopravvissuto alla sentenza della Corte costituzionale del dicembre 2013). E se — come sarebbe in quel caso probabile — a Renzi mancasse una manciata di parlamentari, una grande coalizione con Berlusconi sarebbe molto più facile da fare potendo contare su gruppi parlamentari depurati dalla quasi totalità dei suoi oppositori. Del resto, da un passaggio elettorale a primavera il quadro elettorale uscirebbe drasticamente semplificato. Secondo quasi tutti i sondaggi, potrebbero essere solo quattro i partiti ammessi in parlamento, perché capaci di superare il 4%: Pd, 5 Stelle, Forza Italia e Lega Nord. 

I rischi maggiori vengono però a Renzi forse dal fronte interno al suo partito. La polemica sul tesseramento in crisi non è che l’antipasto dell’assalto che la vecchia guardia dei D’Alema e dei Bersani sta silenziosamente preparando. Lo scontro andato in onda nell’ultima riunione della direzione potrebbe ripetersi a breve. E la coesione dei democratici potrebbe essere messa a dura prova.