Vedremo mercoledì prossimo — al vertice Ue di Milano — in che mani è l’Italia nel confronto europeo. Come era facilmente prevedibile la Mogherini non serve a nulla (un “assordante silenzio”) e l’aver dato l’ok a Jean-Claude Juncker senza un preventivo chiarimento sui contenuti è stato un comportamento molto imprudente. 



Dopo lo choc della generale affermazione delle liste antieuropeiste (anche in Germania), la Merkel non era in condizione di opporsi ad una richiesta italiana — unico vittorioso partito di governo e presidente di turno dell’Ue — di una riflessione sulla crisi e il futuro dell’Ue e sulla necessità di una svolta prima di affidarsi per i prossimi cinque anni a un lussemburghese, ancor più “vassallo” della Germania del portoghese Barroso. Ma il premier italiano doveva ragionare in termini di statista e non di capobranco. Infatti anche l’intervista di una pagina del Corriere della Sera del delegato di Renzi per l’Unione Europea — il sottosegretario Sandro Gozi — senza una parola su euro e allargamento dà l’impressione di un governo un po’ spaesato. Soprattutto preoccupa la “scusa” addotta sul mancato contrasto della Merkel e cioè che il Partito socialista europeo ha perso le elezioni. Gli equilibri e le nomine Ue sono in primo luogo una trattativa non tra partiti, ma tra Stati e non bisognava pugnalare nella schiena David Cameron che si opponeva a Juncker in cambio della Mogherini. Italia con Francia e Gran Bretagna poteva animare un fronte di contenimento. 



La politica della Merkel viene da lontano e non può essere contrastata elemosinando “flessibilità”, ma contestando come metta a rischio la stessa esistenza sia dell’euro sia dell’Unione Europea. 

Sono venti anni che a Berlino si discute (e si manovra) sulle “due velocità” in seno all’Ue e sulla formazione di un “nocciolo duro” alla guida dell’Europa. 

Già nel 1994, l’oggi ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble (con Karl Lamers nel Bundestag), delinea il futuro “nucleo duro” dell’unità europea con esplicita esclusione dell’Italia. La diarchia franco-tedesca è stata coltivata dalla Merkel come “centro di gravità” di un’avanguardia di Stati in seno ai vertici Ue trainante in modo subalterno paesi come l’Italia ed emarginando la Gran Bretagna. Un’idea che si è sviluppata in alternativa alla prospettiva di una integrazione politica finalizzata ad una Federazione europea. 



Se Renzi non vuole imparare da Craxi e Andreotti legga (o faccia leggere) testi europeisti come quelli del leader dei Verdi tedeschi, Joschka Fischer. Il ministro degli esteri del governo Schröder già nel 2000 avvertiva il pericolo del “corto circuito” tra Europa di 28-30 paesi ed eurozona tuonando: “Quo vadis Europa?”. Prevedeva cioè “un continente insicuro” se l’unione monetaria non fosse stata sorretta da integrazione economica e rinnovamento dei sistemi di rappresentanza e di decisione ancora modellati per un’Europa di 6 e che già non funzionavano per un’Europa di 15. 

“L’allargamento – affermava Fischer – rende indispensabile una riforma di fondo delle istituzioni europee” se non si vuole che “l’interesse dei nostri cittadini non sprofondi sotto zero”. E, comunque, anche Fischer pensava ad un “allargamento rapido verso Est” con “posizione centrale della Germania” che Romano Prodi come presidente della Commissione Europea in quegli anni ha diligentemente attuato. 

Ma la politica tedesca del “nocciolo duro” è stata finora “legittimata” dalla tradizionale diarchia franco-tedesca. All’indomani del risultato delle elezioni europee si è invece assistito al dissolvimento della diarchia fino alla violenta polemica degli ultimi giorni tra Parigi e Berlino. La Merkel sta inventando-raccattando una polarità alternativa alla Francia tra estremo ovest ed estremo est dell’Ue sostituendo la partnership francese con un asse ispano-polacco secondo antica “grandezza” germanica.

E’ quindi necessario che il governo italiano abbia un minimo di strategia (una catena di ‘mosse’ e di alleanze). 

E’ sul tema di una maggiore integrazione non solo monetaria, ma anche economica e politica che si aspettava la caratterizzazione della presidenza di turno italiana. Persino sul piano della visibilità (e della demagogia sui “costi della politica”) anziché attaccare a vuoto fantomatici “euroburocrati”, ci si aspettava che il nostro premier-“Jeune Homme” contestasse gli sprechi di un sistema di potere che mentre chiede “rigore” ai cittadini va, ogni mese, traslocando tra Bruxelles e Strasburgo con due grottesche sedi del Parlamento europeo buttando via una valanga di milioni di euro. 

Gli annunci di “grandi, clamorose e imminenti svolte” da parte di Renzi vanno bene per il pubblico italiano e i tweeter dei fans, ma sono acqua sulla roccia per la platea delle istituzioni comunitarie e delle cancellerie europee. Mercoledì a Milano non si tratta di “inventare una notizia” (Renzi-Superman che “sblocca” i 300 miliardi che Juncker verrà di certo a ribadire, ma sempre con le clausole scritte su dettatura di Schauble). E’ auspicabile che dopo i recenti viaggi negli Stati Uniti e a Londra il nostro premier abbia tratto lumi per un riposizionamento positivo e non più isolato e subalterno alla Merkel.

L’andamento del vertice europeo chiarirà quindi i margini di manovra del governo italiano nei confronti di Bruxelles e se Renzi sia ancora in condizione di andare avanti oppure se non gli convenga ripiegare verso le elezioni anticipate. 

Il Patto del Nazareno infatti presenta qualche affanno. L’intesa con l’opposizione è giustificata dalla necessità di riforme istituzionali ed anche per salvaguardare una agibilità parlamentare ai provvedimenti del governo. E’ però sempre più difficile per Renzi “giocare” su due maggioranze nel momento in cui è rottura frontale tra Forza Italia e Nuovo Centro-Destra e cioè se il Patto con Berlusconi implica una riforma elettorale contro gli alleati di governo. D’altra parte la tenuta parlamentare del Patto è controversa come emerge dalle votazioni per la Consulta. E’ evidente che Giorgio Napolitano non intende dimettersi con un simile Parlamento. Il messaggio di richiamo mandato dal Quirinale alle Camere per la mancata elezione dei giudici costituzionali più che un preannuncio di dimissioni sembrava una minaccia di scioglimento anticipato. 

In sostanza se Renzi si troverà in difficoltà con Bruxelles per la Legge di stabilità — ovvero con la sola prospettiva di aumentare le tasse (sia pur chiamandolo “efficientamento delle entrate”) — vi potrebbe essere un generale interesse dei leader di tutti i partiti ad andare alle elezioni con la legge proporzionale della Consulta: Grillo lo auspica da tempo, Renzi e Berlusconi potrebbero “ripulire” i propri gruppi parlamentari con fedelissimi e gli altri — da Alfano a Vendola, dalla Lega ad eventuali scissionisti del Pd — andando al voto senza sbarramenti e obbligo di far parte di una coalizione possono salvaguardare ancora una propria autonoma rappresentanza.