Ieri è stata depositata nella cancelleria della Corte d’Assise di Palermo la trascrizione integrale della deposizione resa dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, nell’ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia. 86 pagine nelle quali il presidente della Repubblica ha risposto alle domande dei giudici a proposito dell’ipotesi di un “patto” tra esponenti di Cosa nostra e Stato italiano per alleviare il regime di carcere duro imposto ai mafiosi subito dopo le stragi del ’92. “Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema”, queste le parole di Napolitano. Lo storico Salvatore Sechi, già consulente della commissione Antimafia sotto la presidenza Pisanu, sulla trattativa Stato-mafia sta per pubblicare uno libro scritto insieme al magistrato di Palermo Antonio Tricoli. 



Sechi, che cosa l’ha colpita nella testimonianza del presidente Napolitano?
La scomparsa della realtà, cioè di come le cose sono andate nel biennio scellerato 1992-1993. Diventato una sorta di buco nella carta geografica della nostra storia.

C’è stata o no una trattativa tra Stato e mafia?
C’è stata eccome, in più occasioni, ed è stata una manifestazione straordinaria di cedimento dello Stato alla criminalità organizzata. Ma questo è solo un aspetto della realtà. E’ inevitabile che uno Stato debole, che sa di non essere amato ma solo temuto dai propri cittadini, qual è lo Stato italiano, cerchi di avviare un negoziato anche con i mafiosi.



Le sue sono parole gravi. Quale sarebbe la seconda faccia della realtà di questo biennio fatale?
Alla campagna di violenze e di destabilizzazione istituzionale scatenata da Cosa nostra ci fu una risposta di alto profilo. Non capisco perché si voglia far finta di ignorarla o di sottovalutarla.

A che cosa si riferisce?
All’azione legislativa svolta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli (Guardasigilli dal febbraio 1991 al febbraio ’93, ndr). Tra il giugno e l’agosto 1992 vennero approvato il decreto antimafia Martelli-Scotti (8 giugno 1992) e il cosiddetto decreto Falcone (la legge n. 356 del 7 agosto 1992).



Cosa contenevano queste misure?
Le si può definire molto semplicemente con un termine che riprendo da un testo del magistrato palermitano Antonio Tricoli: eversive. Eversive nei confronti di Cosa nostra. Infatti con l’art. 41 bis si introduceva nel nostro ordinamento penitenziario il carcere duro per gli indagati e per gli imputati del reato di criminalità organizzata. Attraverso di esso per ragioni di sicurezza venivano ridimensionati, fino a farli cessare, i contatti tra i detenuti di mafia, i parenti e il mondo esterno. Siamo, dunque, ben oltre gli arresti domiciliari od ospedalieri che sono stati le misure tradizionali sulle quali i boss hanno prosperato per molti decenni. 

E la legge Martelli che cosa significò per i corleonesi?

Comportò una vera e propria decapitazione, un esproprio del potere decisionale. Martelli fece riaprire i penitenziari di Pianosa e dell’Asinara in cui il 19 luglio vennero sistemati, in regime di carcere duro, i boss più pericolosi.

Vada avanti.
Dopo il 25 luglio un disegno di legge del governo sancì che in Sicilia si potesse utilizzare in maniera massiccia l’esercito, i cui ufficiali assunsero la qualifica di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria. E gli effetti si videro subito, perché nel giro di pochi mesi vennero assicurati alle patrie galere Riina, i fratelli Graviano, Bagarella, Brusca, Aglieri, Giuffré, Greco e lo stesso Provenzano.

Il carcere duro però è stato oggetto di forti contrasti, anche di accuse di incostituzionalità.
Intendo limitarmi ad una considerazione storica. Da questo punto di vista il carcere duro ha significato la rottura della catena di comando tra le famiglie e i mandamenti, che si videro improvvisamente privati della possibilità di ricevere ordini.

Vi furono altre misure del governo di allora che dimostrano come lo Stato non fosse stato piegato?
Vi furono le misure del 41 bis a carico di 325 detenuti con scadenza prolungata fino al 20 luglio 1993. Altri decreti repressivi vennero emanati su delega di Martelli alla direttiva del Dap il 15 settembre 1992, nei confronti di 567 detenuti, con scadenza fissata al novembre 1993 e al gennaio 1994. Per non parlare delle legge sui collaboratori di giustizia e il favore dato al proliferare dei pentiti. Come chiamare tutto ciò se non una vittoria dello Stato e una sconfitta plateale della strategia di Riina?

Come mai tutto ciò non emerge nelle dichiarazioni dei principali personaggi politici e dello stesso capo dello Stato, Giorgio Napolitano?
Il potere politico continua a non rendersi conto di quali potenti armi Martelli e e Scotti gli avessero messo in mano…

A sentir lei sembra quasi che lo Stato abbia, per così dire, avuto paura di stravincere.
Infatti. Invece di chiudere definitivamente la partita con la mafia, dopo l’emanazione del decreto Falcone che ho citato, lo Stato diede la sensazione di abbassare il tiro. Lasciò smantellare il pool antimafia ideato da Rocco Chinnici e non favorì la nomina di Falcone a capo di quell’ufficio. Si ebbe la mancata sorveglianza e perquisizione del covo di Riina.

Ci fu o no una ripresa dell’iniziativa forte dello Stato?
Solo quando alla testa della Procura di Palermo arrivò il torinese Gian Carlo Caselli. Furono irrogati 650 ergastoli e si avviarono processi importanti nei confronti di imputati collusi con la mafia come Dell’Utri, Andreotti, Contrada, eccetera. Vennero sequestrati arsenali di armi e patrimoni illeciti per un valore di circa 10 miliardi di vecchie lire.

Definisce “colluso” un politico come Andreotti? Come fa a dirlo?

La sentenza emessa a Palermo dal presidente del Tribunale Salvatore Scaduti non giustifica questo termine. Andreotti ha, per una parte della sua attività e biografia politica, allevato luogotenenti come Salvo Lima, che all'”onorata società” sono stati legati, ma i ministri Scotti (democristiano) e Martelli (socialista) hanno fatto parte del suo governo. Il termine “colluso”, in effetti, non rende interamente questa situazione.

Lei, da storico, che cosa si aspetta dal lavoro della Procura di Palermo?
Dovrebbe spiegarci perché la mafia quando era debolissima, grazie alla legislazione repressiva del governo, non sia stata sgominata. Detto diversamente, dovrebbe darci i nomi dei rappresentanti delle istituzioni che hanno deciso una soluzione impressionante: cioè che l’ordinamento sovrano, liberal-democratico, dello Stato dovesse, e debba, convivere o coabitare con un ordinamento minore e criminale come quello di Cosa nostra.

Cosa pensa della mancanza di “interlocuzione” personale tra Napolitano e il consigliere Loris D’Ambrosio sul punto evocato nella drammatica lettera di quest’ultimo del 18 giugno 2012, nella quale D’Ambrosio cita, respingendola, l’ipotesi di “indicibili accordi”?
Ho grande stima di Giorgio Napolitano, ma sinceramente è incomprensibile che non abbia indotto il suo consigliere giuridico a spiegargli quel che egli stesso ha ammesso di sapere, cioè che Riina aveva ricattato lo Stato ponendogli un aut aut micidiale: o si piega, mitigando le pene dei detenuti, o lo mettiamo a ferro e a fuoco. Bisogna rompere ogni forma di solidarietà istituzionale, soprattutto quando il nostro paese a causa di reticenze e complicità protrattesi a lungo nel tempo ha rischiato addirittura un colpo di stato.

(Federico Ferraù)