Stupito dello stupore, è dovuto intervenire il Quirinale a spiegare come stanno le cose intorno alle dimissioni di Giorgio Napolitano. In fondo per gli addetti ai lavori quello di Repubblica è tutt’altro che uno scoop. E lo stesso comunicato della presidenza spiega che “i termini della questione sono noti da tempo”, che cioè la rielezione è stata legata a due elementi, cui se n’è unito un terzo: il percorso delle riforme, le forze che sorreggono l’anziano presidente e — da ultimo — il semestre di presidenza europea.



Sino al 31 dicembre nulla dunque è destinato a cambiare. Dopo — come recita la nota del Colle — “restano esclusiva responsabilità del Capo dello Stato il bilancio di questa fase di straordinario prolungamento, e di conseguenza le decisioni che riterrà di dover prendere”. Nulla è mutato rispetto almeno al luglio scorso, quando Napolitano utilizzò più o meno le stesse parole di oggi.



Viene da chiedersi la ragione per la quale il tema delle dimissioni torni d’attualità. Perché proprio adesso, insomma. E le ipotesi sono differenti: Una lettura vorrebbe che questo annuncio sia stato lasciato filtrare nell’ambito di un pressing renziano su Berlusconi per ottenere il sì sulla legge elettorale nella versione riveduta e corretta (per la decima volta, lamentano gli azzurri). Il Renzellum, che solo lontanamente ricorda ormai l’Italicum frutto del patto del Nazareno. 

Una lettura talmente plausibile da dover essere smontata con cura, prima da Delrio, poi dai commenti lasciati filtrare dall’entourage del premier: l’orizzonte del governo — si ribadisce — sono i mille giorni da qui al 2018, non le elezioni a marzo, non si usa il Colle per fare pressione sulle forze politiche, e avanti tutta con le riforme. Il sospetto di una strumentalizzazione del caso Napolitano viene quindi respinta con forza dallo stato maggiore democratico.



E’ vero che in politica le smentite sono spesso tattiche, ma se per un momento si vuol prendere per buona la correzione di rotta, bisogna provare a disegnare scenari diversi. Se non è Renzi a usare Napolitano contro Berlusconi, diventa plausibile che sia Napolitano stesso a trovarsi in una divergenza di vedute rispetto al premier, rispetto all’intenzione che carsicamente torna a galla di andare a elezioni anticipate in primavera. 

E’ credibile l’ipotesi di un capo dello Stato che preferisca le proprie dimissioni a uno scioglimento anticipato delle Camere? Assolutamente sì, tanto per le convinzioni politiche profonde di Napolitano, quanto per le parole da lui stesso utilizzate sin dal suo secondo discorso d’insediamento (un anno e mezzo fa). Proviamo a immaginare la scena: un Renzi che ipotizza uno scioglimento a gennaio ed elezioni a fine febbraio/inizio marzo per levarsi di torno i frenatori della sinistra Pd e gli alleati centristi e un presidente che gli risponde qualcosa che assomiglia a un “piuttosto mi dimetto io”.

Non è un mistero, ed è stato ribadito più volte, che Renzi preferirebbe che nulla cambiasse dalle parti del Quirinale, per non turbare l’attuale delicato equilibrio istituzionale.

Anche l’ipotesi che sia il nuovo parlamento, ancora perfettamente bicamerale, a eleggere il successore di Napolitano non convincerebbe il presidente, perché firmando il decreto di scioglimento delle Camere ratificherebbe il fallimento di quel patto per le riforme che fu alla base della sua rielezione.

Obtorto collo Renzi e il resto della politica italiana dovranno fare i conti con un schema diverso da quello pensato sino a qualche settimana fa: sarà questo parlamento, pur con tutti i suoi innegabili limiti (quadro politico cambiato e delegittimazione frutto della sentenza della Consulta sul Porcellum) a eleggere il prossimo Capo dello Stato (tra fine gennaio e inizio febbraio). A quel punto la finestra elettorale di primavera si sarà praticamente chiusa, perché per il primo maggio, data d’inaugurazione dell’Expo di Milano, ci dovranno essere un Capo dello Stato e un governo nel pieno delle proprie funzioni, pena una figuraccia di portata planetaria. 

E’ come se Napolitano facesse alla politica l’estremo regalo di costringere i partiti a riprendere il filo delle riforme, filo che sembra scomparso nelle prime nebbie autunnali. Costretti a una qualche intesa, insomma, dal momento che votare non si può. 

Il problema è che all’elezione del successore di Napolitano arriveranno partiti in profonda crisi: il Pd che sta cambiando pelle, una Forza Italia divisa su tutto e fuori dal controllo di Berlusconi, un movimento grillino sempre più debole e diviso. In mezzo solo il consenso forte di cui continua a godere il presidente del Consiglio. A lui toccherà l’onere della prima mossa. Dovrà essere Renzi a indicare la soluzione possibile, e non potrà che essere una soluzione condivisa. Il rischio che tutti i malesseri di un parlamento debole si riflettano nel segreto delle urne è davvero fortissimo. Le 21 votazioni per eleggere i giudici della Corte Costituzionale di competenza parlamentare sono lì a dimostrarlo. Il rischio di nuove “cariche dei 101” è sempre in agguato.