Dalla “profonda sintonia” del 18 gennaio all’accordo “più saldo che mai” del 12 novembre, dieci mesi poche analogie e tante differenze. A prima vista si tratta del rilancio dello stesso accordo, subito ribattezzato “patto del Nazareno”, ma non è così. Nel lasso di tempo intercorso fra le due date tutto o quasi è cambiato, e — di conseguenza — il patto di Palazzo Chigi suggella equilibri diversi per scenari profondamente mutati.



A inizio anno si erano trovati di fronte il giovane neosegretario del Pd e il leader di un centrodestra appena espulso dal parlamento, leader di due partiti abbastanza vicini quanto a consensi elettorali. Se non si trattava di un piano di parità, poco ci mancava, nonostante l’azzoppamento di Berlusconi.

Oggi i piani sono diseguali. Renzi è a Palazzo Chigi e ha il vento nelle vele, nonostante il maestrale soffi decisamente meno forte di qualche tempo fa. Ha avuto il 40,8% dei voti alle europee, sta asfaltando la minoranza interna e la Cgil. Berlusconi è profondamente più debole di gennaio, guida un partito balcanizzato e quasi scomparso sul territorio e alle stesse europee è scivolato al 16,8%. In più sente il fiato sul collo di un Salvini che insidia il suo spazio e lusinga gli elettori azzurri. E’ ancora azzoppato, anche se non dispera di riuscire a ritornare in campo, a dispetto della sua veneranda età. 



Una forza e una debolezza, che si sono confrontate e hanno rilanciato un patto sulle riforme “più solido che mai”, anche se non completo. Rispetto all’accordo del Nazareno molto è cambiato, e quasi tutto a vantaggio di Renzi. Solo l’innalzamento dal 35 al 40% della soglia di voti necessario per evitare il ballottaggio è in apparenza contro il Pd, che è però oggi l’unico partito in grado di raggiungere quella soglia. Per il resto, arrivare presto al risultato del varo della nuova legge elettorale, abbinato alle riforme costituzionali, costituiscono punti a favore del premier, così come la reintroduzione delle preferenze per i candidati successivi ai 100 capilista, che rimarranno espressione dei singoli partiti. 



Renzi si è persino permesso di non affondare sugli altri due punti: il premio di maggioranza che si sposta dalla coalizione alla lista più votata, e la soglia d’ingresso alla Camera, fissata al 3% dal patto con Ncd e i dieci piccoli indiani che lo sostengono. Non è da escludere che — essendo due i punti rimasti aperti — si finisca poi uno a uno: Berlusconi dirà sì al premio di lista, Renzi accetterà uno sbarramento al 4% anche se risulterà indigesto ad Alfano e a Vendola.

E Berlusconi? Al di là di potersi scegliere i propri parlamentari grazie al meccanismo dei capilista bloccati, il suo principale risultato è ottenere il rinvio delle elezioni. Se si arriverà al 2018, a fine legislatura, solo il tempo lo dirà. Ma nel 2015 assai difficilmente si tornerà alle urne. Questo però più che merito dell’accordo con il premier è dovuto alla spada di Damocle delle dimissioni di Giorgio Napolitano. 

E questo dettaglio fa pensare che nell’ora e mezza di confronto a Palazzo Chigi si sia discusso anche di questo tema, del successore dell’attuale capo dello Stato, che questo parlamento sarà chiamato a scegliere all’inizio del prossimo anno. Questa forse è la vera natura del patto di Palazzo Chigi, siglato nel terzo anniversario delle dimissioni da premier di Berlusconi.

Per attuarlo Renzi dovrà guardarsi soprattutto dalle insidie di casa propria, dove la sinistra interna mette in discussione molti dei punti del patto, come i capilista bloccati, e ritiene uno strappo irreparabile la richiesta di un nuovo voto di fiducia sul Jobs Act senza cambiamenti significativi rispetto al testo uscito dal Senato. Sorgerebbe un problema politico, ha spiegato Fassina in direzione Pd. Insieme alla Cgil la sinistra interna costituisce oggi la vera opposizione al renzismo. Molto timida, per la verità. Di sicuro, tutto il resto è noia, almeno per il momento.