Ognuno per sé, nessuno per tutti; anzi, tutti contro tutti. Suona capovolto da sempre, in Veneto, il celebre motto dei tre moschettieri: dove l’italica vocazione alla guerra dei campanili tocca punte esasperate, spesso finendo per danneggiare il territorio e i suoi abitanti. E riproponendosi nel tempo, con nuove divise e nuovi interlocutori: come accade in questi giorni, con una faida tra due città, Padova e Verona, intorno alle rispettive fiere. Con l’aggravante che anziché uno scontro tra fazioni avverse, Montecchi e Capuleti, qui si tratta di un derby fratricida in casa leghista, visto che i rispettivi sindaci, Bitonci e Tosi, sono entrambi targati Carroccio.



Veleni antichi, certo. Ab illo tempore, le sette sorelle venete, cioè le sette province, anziché fare squadra si dedicano con perversa tenacia a scontrarsi su tutto: porti, aeroporti, strade, università, infrastrutture, servizi, trasporti. Incluse le  fiere, sulle quali ciascuna sorella si muove per conto proprio, incurante di doppioni e incroci, anziché fare sistema puntando ciascuna su specializzazioni diverse ma integrate. Padova e Verona, in particolare, si contendono e si scippano saloni specializzati da ben prima che nascesse la Lega. Ma stavolta accade che la contesa scoppi sotto lo stesso tetto: perché Verona lavora per allestire un salone sulle biciclette in concorrenza con Padova, e il sindaco di quest’ultima reagisce annunciando che lui ne farà addirittura due, uno sui vini e l’altro sui cavalli, entrambi punti di forza della fiera scaligera.



C’è chi crede di cogliere, in questo, un segnale della guerra nemmeno tanto sotterranea dei contrasti interni al Carroccio tra Salvini e Tosi, e tra quest’ultimo e Zaia, con sullo sfondo le elezioni regionali venete della primavera prossima. In cui Zaia, governatore uscente, si ricandiderà formalmente sostenuto da tutto il movimento, ma secondo alcuni con l’opposizione strisciante di Tosi e dello stesso Bitonci. È noto che in Italia la dietrologia è sport nazionale, ma qui si esagera: perché appunto la campanilite acuta del Veneto è malattia remota. E perché il sindaco padovano Bitonci è di quelli che non disdegnano i primi piani, e rientra nella categoria politica (peraltro trasversale) degli esternatori a quattro ruote motrici; ogni giorno se ne inventa una, a prescindere. Magari confondendo, nella circostanza, l’organizzazione di una sagra strapaesana con quella di un salone specializzato.



Ciò non toglie che le guerriglie di casa leghista ci siano, e siano tutt’altro che innocue. Inevitabile, quando il Capo per definizione se ne va. Bossi aveva tenuto insieme un movimento composito ed eterogeneo; quello che a suo tempo Ilvo Diamanti aveva paragonato a un autobus, dove c’è chi sale per arrivare fino al capolinea, e chi per scendere a qualche fermata successiva. Tolto di mezzo il conducente, i suoi aspiranti successori, formalmente seduti d’amore e d’accordo allo stesso tavolo, sotto la tovaglia si prendono a calci nelle caviglie. 

E tuttavia una distinzione di fondo emerge, perché riguarda due capolinea diametralmente opposti nelle intenzioni dei successori di Bossi. Con Salvini che guarda a una Lega radicalizzata, coagulo dei non pochi malpancisti d’Italia e sostanzialmente anti-sistema: non a caso alleata in Europa con la destra estrema francese di Le Pen. E con Tosi che invece punta a una Lega riferimento dell’area moderata, che assieme ad altri movimenti riesca a costruire quel centrodestra europeo di cui l’Italia è orfana.

Conflitto non mediabile, come si vede. E che comunque deve fare i conti con qualcosa e qualcuno ben diverso dal classico terzo incomodo. Salvini e Tosi, con intenti opposti, giocano su quell’ampia galassia berlusconiana che il tramonto dell’ex Cavaliere sembra trasformare in terra di conquista. Ma è tutt’altro che scontato che Berlusconi intenda cedere il passo. E soprattutto, è più che probabile che un elettorato fin qui tenuto insieme dal collante Silvio, si spacchi in due una volta che essi venga meno. Rendendo ininfluenti entrambi gli aspiranti colonnelli.