Cancellare le Regioni, “che allo stato attuale sono un cancro per il Paese”, e introdurre al loro posto sei macroaree. E’ l’idea di Stefano Caldoro, presidente della Regione Campania, e di Paolo Russo, parlamentare di Forza Italia. La proposta è contenuta in alcuni emendamenti al ddl Boschi sulla riforma del Senato, presentati dopo che alle elezioni per Calabria ed Emilia-Romagna l’astensionismo ha raggiunto livelli record. Ne abbiamo parlato con Stefano Bruno Galli, capogruppo della Lista Maroni in Regione Lombardia e sostenitore della creazione di una Strategia Macroregionale per la Regione Alpina.
Che cosa ne pensa della proposta di Caldoro?
Non si tratta certo di una novità. Nella prima legislatura regionale tra il 1970 e il 1975 gli spiriti più avveduti intuirono che la creazione delle Regioni a 22 anni dall’approvazione della Costituzione avrebbe determinato un’esplosione della spesa pubblica che sarebbe divenuta incontrollabile.
Per quali motivi?
Dalla nascita delle Regioni allo sviluppo del regionalismo non si è contestualmente regionalizzato lo Stato. I centri di spesa si sono moltiplicati e la spesa pubblica è uscita fuori controllo. All’epoca alcuni giuristi proposero la razionalizzazione della suddivisione amministrativa della Penisola. Tra gli altri vi furono Gianfranco Miglio e Guido Fanti, comunista e primo presidente della Regione Emilia-Romagna. Le attuali Regioni rispecchiano i 16 distretti statistici di fine Ottocento, con l’aggiunta di altri quattro introdotti durante il Fascismo.
Lei è favorevole alle macroregioni?
L’idea di macroregione oggi è decisiva. Deve essere però formulata all’interno della Costituzione, cosa che finora non è avvenuta con il Titolo V. Le Regioni attuali sono troppo grandi come soggetti istituzionali per avere un rapporto diretto con i cittadini. D’altra parte sono troppo piccole per esprimere delle politiche pubbliche ambiziose. Hanno insomma una dimensione ibrida e disomogenea. Si va dalla Lombardia, che con dieci milioni di abitanti è popolosa quasi quanto il Belgio, al Molise che con 300mila persone è pari più o meno a un quartiere di Milano.
Ma quindi lei condivide in toto la proposta di Caldoro?
No. Caldoro rilancia la proposta di sciogliere le Regioni, mentre io ritengo che si debba procedere per accorpamenti, che è un metodo radicalmente diverso. Devono essere le comunità territoriali a decidere, cioè a esercitare il diritto sacrosanto di decidere di stare con chi vogliono. Bisogna cogliere l’opportunità di mettere mano alla Costituzione partendo dal basso. Devono essere gli enti territoriali a poter determinare l’estensione e la composizione di queste nuove articolazioni istituzionali. Caldoro invece ipotizza anche la strada “dall’alto”, che poi è quella dirigista con lo Stato che impone l’aggregazione.
Le piccole Regioni come il Molise in questo modo non cercheranno di difendere il loro potere restando da sole?
Non è così, innanzitutto per una motivazione strategica. Bisogna avere il coraggio di attuare una riforma dell’istituto regionale che non si limiti a togliere delle competenze, riconoscere dei costi standard e introdurre il Senato delle Regioni. Occorre riprendere in mano l’intero progetto, perché è inconcepibile pensare a un ordine politico senza un ente intermedio.
Quali rischi intravvede?
Come insegna Tocqueville, quando il rapporto tra lo Stato e il cittadino è diretto e non è mediato da alcuna articolazione intermedia, la deriva autoritaria è dietro l’angolo. E’ quindi inconcepibile pensare a un ordine istituzionale senza enti intermedi. Bisogna avere il coraggio di riformare radicalmente le Regioni, procedendo agli accorpamenti e ridistribuendo le competenze dal punto di vista dell’autonomia politica e amministrativa.
(Pietro Vernizzi)