Avanti tutta, nessun cedimento, nessuna trattativa. Matteo Renzi avverte la sua minoranza interna che il Jobs Act dovrà essere approvato alla Camera nella stessa formulazione uscita dal Senato e usa parole sibilline che vanno attentamente valutate: intanto conferma che sul testo verrà posta la fiducia, come già accaduto a Palazzo Madama, poi afferma che se qualcuno non dovesse votare la fiducia “per ragioni identitarie, facciano pure. Se mettono in pericolo la stabilità del governo, o lo fanno cadere, le cose naturalmente cambiano”.



Gli esegeti ufficiali del premier si sono affrettati a spiegare che questo virgolettato (proveniente dalle anticipazioni dell’ennesimo libro natalizio di Bruno Vespa), vanno lette non semplicemente come un preavviso di espulsione, ma vogliono lasciare intendere assai di più. Intendono avvertire del fatto che l’eventualità di elezioni anticipate in primavera si fa di giorno in giorno più concreta. E una spaccatura interna al Pd sul Jobs Act sarebbe un casus belli perfetto per precipitare verso le urne, con il preciso intento di sbarazzarsi in primo luogo dei frenatori di casa propria, quelli che oggi stanno mettendo a Renzi i bastoni fra le ruote assai più che qualsiasi opposizione parlamentare. Il ricorso al voto costituirebbe un bagno di sangue sulle candidature, una pulizia etnica della minoranza, che oggi è ancora maggioranza nei gruppi di Camera e Senato, figli delle liste scritte da Bersani.



Per chi non avesse capito, nelle stesse anticipazioni il premier segretario non si limita a dire che il popolo del Pd non capirebbe una scissione. La definisce “un progetto identitario fine a se stesso certo non destinato a cambiare l’Italia”. E aggiunge che è più facile perdere qualche parlamentare che qualche voto. La virulenza dei toni usati per esorcizzare la minaccia fa capire che una scissione a sinistra viene messa nel conto delle cose possibili da parte del quartier generale del Nazareno, ma che non preoccupa più di tanto. Del resto, la mobilitazione della Cgil e della Fiom contro il governo difficilmente rimarranno senza effetti sul piano parlamentare. Ma il calcolo è che i voti persi a sinistra possono essere ampiamente compensati dilagando fra i moderati, dove si aprono praterie, visto l’atteggiamento condiscendente (se non di alleato occulto) che Berlusconi sta tenendo verso il governo. 



Ciò che assolutamente Renzi non può permettersi è di rallentare il ritmo, perché correrebbe il rischio di finire impantanato. Nelle ultime settimane è anzi maturata la necessità di operare un cambio di passo. Serve più concretezza sul piano parlamentare, perché le riforme non basta annunciarle, ma bisogna anche saperle tradurre in provvedimenti legislativi. Sinora le realizzazioni sono state molto al di sotto delle attese,  e le slides non bastano più.

La congiuntura economica non aiuta, con tutti i maggiori indicatori che continuano a mostrare il segno meno. Ecco perché un lievissimo aumento degli occupati è stato accolto con entusiasmo a Palazzo Chigi, anche se non si può essere certi che possa segnare una inversione di tendenza.  

Per fare diventare legge le riforme Renzi sta riflettendo sulla necessità di stringere un’alleanza con una parte della dirigenza pubblica, che sinora è stata a guardare, quando non ha opposto una forte resistenza passiva al cambiamento. Il “giglio magico” fiorentino sembra non bastare più, adesso serve la selezione di una parte di grand commis dello Stato, magari giovani, che garantiscano la presa sulla macchina dello Stato. Arrivare, insomma, dove sinora il renzismo non è riuscito ad arrivare. 

E per convincere una parte dell’alta burocrazia a scommettere su Renzi, il fattore velocità è decisivo. Vietato decelerare, e l’atteggiamento duro nei confronti delle lungaggini parlamentari costituisce la prova dell’intenzione concreta di cambiare  la macchina pubblica, così da ottenerne la collaborazione e la fedeltà. E se davvero la palude parlamentare dovesse finire per avere il sopravvento, allora appunto lo spauracchio delle urne si farebbe più concreto. 

Con ogni probabilità la decisione finale non è ancora stata presa, e dipenderà dall’evoluzione tanto del quadro economico, quanto di quello parlamentare. C’è pure un terzo indicatore che viene tenuto sotto controllo a Palazzo Chigi: l’indice di popolarità del premier. E anche in questo campo preoccupa qualche segno di cedimento. L’immagine sembra lievemente appannata dalla fatica di governare.

Se andassero a sommarsi una situazione di Vietnam parlamentare permanente, economia stagnante e popolarità in calo, Renzi avrebbe ottime ragioni per invocare le elezioni prima di trovarsi davvero ad annaspare. Dal suo punto di vista sarebbe un rischio calcolato, perché in assenza di avversari credibili la vittoria non sarebbe in discussione e gli consentirebbe di raggiungere molti obiettivi con una sola mossa: la propria piena legittimazione democratica, gruppi parlamentari di fedelissimi e l’azzeramento dei piccoli alleati centristi che lo condizionano. La tentazione di scatenare la tempesta perfetta si fa ogni giorno più forte.