“C’è chi tenta di usare il lavoro per dividere il paese”: lo ha detto Renzi agli industriali di Brescia, attingendo facilmente alla cronaca di questi giorni, e alla manifestazione che in contemporanea, a Brescia, vedeva contestazioni al governo e incidenti. Lo ha detto in modo accorato. E c’è da credergli che in questo accoramento ci sia la preoccupazione per il Paese, prima ancora che per i destini del suo governo: “C’è un disegno per spaccare in due l’Italia e dividerla tra padroni e lavoratori. Il lavoro non sia terreno di scontro politico. Non si può sfruttare il dolore dei cassintegrati, dei disoccupati, dei precari”.
Tutto vero. Se non il disegno, il rischio di questa spaccatura. Come sacrosanta è la necessità di non cavalcare il disagio sociale, perché aggiungerebbe rischi a rischi. Renzi dice una sacrosanta verità, non dividere il Paese. Ma non basta dire una verità per farla. C’è bisogno di essere conseguenti, e di fermarsi tutti, anche il governo; se davvero non si vuole dividere il Paese “tra padroni e lavoratori”. Perché questa divisione è nella narrazione politica proposta in questi mesi dalle parti in gioco, dal governo e da chi gli si oppone, in parlamento e nelle piazze sindacali.
Qualsiasi studente di economia sa che capitale e lavoro sono i due principali fattori di produzione. E una visione “umanistica”, appannaggio per lo più della sinistra – cui Renzi, che pur tenta di aggregarsi voto moderato e di destra, continua ad ascrivere sé e il suo governo –, aggiungerebbe che il “fattore di produzione lavoro” sono persone, esistenze, vite che non hanno solo mercato ma anche diritti, qualcuno non monetizzabile. E che farli dialogare è la vera necessità “riformatrice” delle nostre società in crisi economica, e della nostra Italia, perché la loro divisione non può funzionare.
Purtroppo alla Leopolda e a San Giovanni, dieci giorni fa, questi due fattori di produzione si sono divisi. In modo plastico. Da un lato un governo che pianifica in modo apologetico la rivendicazione del suo lavoro contro la “conservazione” sindacale, tra il plauso, con toni in alcuni casi sgangherati, di una platea economica imprenditoriale e politica; dall’altro un sindacato all’attacco, se non politico, delle politiche “di destra” di un governo espressione in modo preponderante del maggior partito della “sinistra”. Una brutta rappresentazione, e se ne sono visti gli esiti con gli scontri di piazza tra manifestanti e agenti che ne sono venuti in questi giorni, fino a ieri. Urge, da parte degli attori in scena, per il bene del Paese, un rapido cambio di registro.
La situazione economica e sociale dell’Italia è bloccata; lo testimoniano i dati Istat per il 2014 e 2105, che raccontano dell’inefficacia delle misure fin qui prese. C’è bisogno di misure ancora più decise e incisive, per qualità e quantità. E nessuno può illudersi di conservare l’esistente.
Neanche, però, di pensare che i costi del cambio dell’esistente li possa pagare una sola parte, e soprattutto i ceti più deboli. C’è bisogno di coesione sociale per affrontare il cambiamento, e la coesione si costruisce rispettando nei fatti e non a parole il disagio sociale, tanto, che c’è in circolazione.
Questo disagio non può essere cavalcato né da parte del governo, né da parte dell’opposizione al governo. E qui forse è al premier, a Renzi, per la responsabilità preminente che gli compete, fare la prima mossa. E il primo consiglio da dargli è di cambiare registro alla sua narrazione, che divide il mondo del lavoro in modo manicheo tra garantiti (dal sindacato “conservatore”), gli occupati, e non garantiti, disoccupati e inoccupati, “che sono nel suo cuore” come ha detto a Brescia. Nel cuore del presidente del Consiglio dovrebbero esserci anche gli occupati, i presunti garantiti da mille o duemila euro al mese, perché presto anch’essi potrebbero trovar posto come prossimi disoccupati nel suo cuore.
Questo è quello che raccontano i cortei e le piazze sindacali di questi giorni: che il problema del Paese non è solo creare nuova occupazione, ma difendere quella che è rimasta, per non creare semplicemente un turn over a saldo zero, andasse bene, nel girone dei dannati senza lavoro. Al centro di un’azione riformatrice quanto al lavoro, nel cuore del governo, ci devono essere disoccupati, inoccupati e ansie degli occupati, perché un figlio che trovi lavoro a tempo determinato, mentre il padre lo perda a tempo indeterminato, non sarebbe un gran risultato per la famiglia.
E ci deve essere posto anche per gli imprenditori, cui bisogna certo facilitare la vita, ma non a quelli che vendono un capo di lusso in boutique a duemila euro, però manufatto magari in Transnistria, alla periferia della Moldavia a trenta euro; perché in Italia, magari al Sud, che il governo vorrebbe far ripartire, gli costerebbe trenta euro in più. Non si sieda ai tavoli della Leopolda, chi fa così, perché quei trenta euro risparmiati in Moldavia o giù di lì per l’impresa, diventano migliaia di euro a carico del sistema paese, di chi vi contribuisce con le sue tasse, cittadini e imprese, per ogni disoccupato che generano. F
Acesse così, il governo avrebbe meno difficoltà a far passare le sue riforme, o almeno toglierebbero alibi, se alibi cercano, ai “conservatori” in parlamento e in piazza.