Alla fine si fa concreto il rischio che la colpa qualcuno la dia a Giorgio Napolitano. Anche se ampiamente preannunciato nei mesi scorsi dai suoi interventi pubblici, il fatto che le dimissioni del presidente della Repubblica siano imminenti è alla base dell’improvviso complicarsi della partita delle riforme costituzionali e della legge elettorale.



Tutti hanno dovuto riposizionarsi in vista di questa scadenza. Il più lesto è stato Silvio Berlusconi, che è uscito da una lunga fase di torpore che aveva preoccupato i suoi fedelissimi. Dalla sudditanza a Renzi che dettava l’agenda al contrattacco, al tentativo di riguadagnare il centro della scena che i due Matteo (Renzi, ma anche Salvini) gli stavano sottraendo. 



Nel giorno di San Martino il leader di Forza Italia aveva dovuto subire l’affondo del premier che per l’ennesima volta aveva cambiato le carte in tavola sull’Italicum. La legge elettorale che Renzi ha in testa è solo lontana parente di quella uscita dal patto del Nazareno, il 18 gennaio. E tutte le modifiche sono state apportate su richiesta del Pd. L’introduzione del premio alla lista, e non più alla coalizione, è poi smaccatamente a favore dei democratici, anche se giustificata da esigenze di semplificazione del quadro politico.

Berlusconi è stato colto nel suo momento di massima debolezza, e ha dovuto chinare il capo. Ai suoi ha spiegato che a lui il premio di lista non piace, che lo avrebbe osteggiato sino all’ultimo, ma non al prezzo di fare saltare l’intesa con Renzi. Un sì per senso di responsabilità che aveva gettato nello sconforto i fedelissimi.



In quella occasione però (lo ha spiegato lo stesso Berlusconi) si era concordato un metodo sul Quirinale. Per l’ex Cavaliere il risultato più importante, perché ritiene vitale avere al vertice dello Stato un presidente se non amico, almeno ben disposto, magari in vista di una richiesta di grazia. Non un Prodi, insomma.

Il corollario del patto sulle riforme ha per Berlusconi un valore pari, se non superiore al patto stesso. E l’accelerazione impressa dal Quirinale alla vicenda ha consigliato a Berlusconi di mettere le mani avanti. Del resto, non avendo la forza di ostacolare Renzi sulla revisione della Costituzione e sulla legge elettorale, l’unica arma a sua disposizione era alzare il prezzo sulla corsa al Colle, un passaggio che Renzi teme moltissimo, dopo aver visto Bersani impantanarsi nel fango dei 101 franchi tiratori che affossarono il fondatore dell’Ulivo. 

Il secco no del presidente del Consiglio alla richiesta di fermare tutto in attesa della scelta del successore di Napolitano era ampiamente messo nel conto da Berlusconi. Lo rendevano obbligato sia ragioni politiche, sia di galateo istituzionale. Napolitano è un presidente nel pieno delle sue funzioni, e nessuno può condizionarne le scelte.  

Logico quindi rispondere che non si discuterà di nulla sino alla firma delle dimissioni, e che si deve continuare secondo il calendario tracciato. E la minaccia di alcuni democratici di procedere senza Forza Italia (sulla base dei numeri della sola maggioranza) può valere per la legge elettorale, ma non per la revisione delle Costituzione, che impone quorum più elevati. Procedere a colpi di maggioranza sull’Italicum significherebbe compromettere tutto il resto. In sostanza, un’arma spuntata. 

L’ingorgo parlamentare di fine anno viene però paradossalmente in aiuto di Berlusconi. Entro dicembre ci sono da approvare sia la legge di stabilità, sia il Jobs Act. Per il resto il tempo scarseggia. Le riforme costituzionali dovrebbero approdare nell’aula di Montecitorio il 16 dicembre, ma la presidente Boldrini ha promesso un dibattito ampio, quindi non si chiuderà di sicuro prima di fine anno. Al Senato l’affollamento dei provvedimenti è ancora superiore (sia la riforma del lavoro che la manovra economica), e sarebbe già un successo se l’Italicum uscisse dalla commissione affari costituzionali che attualmente lo esamina. Se nel discorso di Capodanno, come credono in molti, il Capo dello Stato fisserà il timing della sua uscita di scena, di fatto Berlusconi avrà incassato il risultato atteso. Riforme e Quirinale finiranno per intrecciarsi fra loro. Le due partite dipenderanno l’una dall’altra. 

E su entrambe finirà per pesare anche lo spappolamento del Movimento 5 Stelle, che sembra arrivato vicino al punto di non ritorno. Se continuerà la sanguinosa resa dei conti interna a colpi di espulsioni, nel giro di poche settimane vi sarà un numero senza precedenti di parlamentari senza casa. Numeri sufficienti a costituire nuovi gruppi parlamentari sia alla Camera, sia al Senato. Di conseguenza gli scenari parlamentari potrebbero cambiare in maniera del tutto inattesa e, a oggi, anche difficilmente prevedibile.  

E’, quindi, intorno al Quirinale che si giocherà la partita chiave del 2015. Solo dopo la soluzione del rebus del Colle si potrà capire il destino della legislatura. E a Renzi, in quanto leader del governo e del partito di maggioranza relativa, spetta l’onere della prima mossa. Che deve stare attentissimo a non sbagliare.