Dubbi e incertezze sono disseminati sulla strada che dovrebbe condurre all’approvazione del nuovo sistema elettorale della Camera dei deputati. Da un lato, al Senato la prima Commissione, quasi in sordina, ha approvato un ordine del giorno bipartisan che prevede il premio alla lista e auspica genericamente che il voto sia espresso secondo modalità coerenti con quanto richiesto dalla sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale. Dall’altro lato, si presentano subito dopo migliaia di subemendamenti agli emendamenti che la presidente (e relatrice) della stessa Commissione, Anna Finocchiaro, ha appena proposto per correggere il ddl – già approvato dal Senato – secondo l’ultima impostazione preferita dal presidente del Consiglio.



Come noto, si tratta di una nuova combinazione di meccanismi che, tra capilista bloccati, doppia preferenza e ridotte soglie di sbarramento, sono ritagliati su misura sull’attuale compagine di maggioranza. Un boccone amaro per chi sperava in un sistema chiaro che potesse consentire una sfida aperta e trasparente tra candidati scelti democraticamente; un boccone probabilmente indigesto per una buona parte dei parlamentari in carica. 



Ancora, lo stato di confusione è aumentato con l’accendersi della discussione sull’introduzione di una clausola che colleghi il nuovo sistema elettorale della Camera alla riforma costituzionale del bicameralismo. Una soluzione che prima è stata del tutto esclusa dal Governo, salvo poi essere riproposta a sorpresa dallo stesso esecutivo, ma soltanto come semplice rinvio temporale dell’entrata in vigore della riforma elettorale medesima. L’esito è stato un ulteriore vantaggio per chi intenda rallentare il percorso della riforma.

Infatti, delle due l’una. Se il nuovo sistema elettorale che sarà approvato varrà soltanto a condizione che si approvi la riforma costituzionale, è evidente che non si avrà alcuna remora ad accrescere le attuali difficoltà del processo di approvazione della riforma elettorale, che potrà essere derubricata a mero passatempo istituzionale; se, invece, la riforma costituzionale varrà a partire da una certa data (ad esempio, dall’inizio del 2016), allora tutti i contrattempi e ogni possibile discussione su qualunque dettaglio saranno buoni argomenti per favorire la prosecuzione della discussione sino a quella data, così lasciando nelle mani di chi intende disporre del potere di fissare arbitrariamente quest’ultima – anche, temerariamente, mediante decreto-legge – la decisione sulla scadenza dell’attuale esecutivo. Insomma, può ben dirsi che si è introdotta una questione in più non per risolvere i problemi, ma per “fare ammuina”.



In ogni caso, lo spettacolo offerto da chi sta tirando i fili di quanto avviene in Parlamento è alquanto deprimente. Ragione vorrebbe che si iniziasse dalla riforma costituzionale e poi, una volta definita quest’ultima, si procedesse all’approvazione della conseguente legge elettorale. Al contrario, si è scelta la strada più improbabile, quella cioè delle convergenze parallele di lontana memoria. 

Ragione vorrebbe che nel frattempo si mettesse in sicurezza il vigente sistema elettorale con l’approvazione delle normative necessarie per consentirne la piena applicazione, qualora si dovesse procedere allo scioglimento anticipato. Ma nulla si muove su questo versante. Ragione vorrebbe che l’esecutivo, presentando una sua proposta di riforma elettorale, mantenesse una linea costante, e non mutasse radicalmente orientamento dopo che la riforma è stata approvata da un’Assemblea, come invece è avvenuto.  

Nell’immediato futuro, dal punto di vista procedurale molto dipenderà dalle prossime decisioni sui tempi di approvazione in Commissione e poi in Assemblea. Ma ancor più decisiva sarà la sovrapposizione con il procedimento parallelo sulle riforme costituzionali che incontra forse ancora maggiori ostacoli alla Camera. Il campanello d’allarme sull’emendamento che nella prima Commissione della Camera ha inciso sulla composizione del Senato, la dice lunga sulle fibrillazioni che attraversano gli schieramenti parlamentari.

E ancor più determinanti saranno le prossime dimissioni del capo dello Stato. Dinanzi all’approssimarsi di questa evenienza, ormai data per sicura entro gennaio, sempre più difficilmente si sarà in grado di trovare le soluzioni di compromesso necessarie per approvare, in un Parlamento sempre più balcanizzato, alcunché in tempi così ristretti. Ma, a differenza di quanto è frequentemente avvenuto per il governo in carica, stavolta l’esito più probabile potrebbe anche giocare a sfavore. 

Infatti, l’impossibilità di dare uno sbocco positivo alle istanze riformatrici delle istituzioni sarà una buona giustificazione sia per chi cercherà di giungere alle elezioni anticipate, sia per chi spingerà per una nuova soluzione “alla Monti”. In definitiva, come già si è detto, le annunciate dimissioni del capo dello Stato hanno dato il via a una lotta senza quartiere in cui il destino delle riforme sembra ormai segnato.  Non nel senso del successo, ma in quello del fallimento. Forse, considerato quanto si discute in questi giorni, non è un esito infausto.