Dopo la giornata di ieri, con i cortei e gli scontri, gli insulti e le manganellate, la sensazione è che l’Italia abbia fatto un passo indietro. In una situazione sociale già molto pesante, chi ha guardato la televisione si è sentito un po’ più inquieto: si diffonde la paura, aumenta l’incertezza, cresce la rabbia. Nell’incapacità di trovare un punto archimedeo per cominciare la risalita. 



Anche se non voleva ottenere questo risultato, chi ha organizzato lo sciopero ha di che riflettere.

Il governo ho giustamente risposto che non si farà impressionare. Tanto più che, come sempre, i provocatori sono stati una sparuta minoranza. E tuttavia, sarebbe un errore sottovalutare il fatto che, al di là dei giochi politici e delle strategie dei leader abituati a strumentalizzare le masse per i propri fini, la gran parte di coloro che hanno scioperato e hanno preso parte alle manifestazione  erano persone pacifiche, sinceramente preoccupate per il proprio futuro e quello dei loro figli. Convinte che non sia spremendo ulteriormente il lavoro a far trovare l’uscita dalla crisi. Tanto più in un momento storico in cui la disoccupazione è alle stelle e l’Europa rischia di infilarsi nella deflazione. 



In una barca che fa acqua (com’è, in  questo momento, il nostro paese), la cosa peggiore è dividersi senza una ragione precisa. E in effetti, a ben guardare, le parole che si sono rimpallate nelle ultime ore sembrano le battute di una (tragi)commedia degli equivoci. Tutti sono per il lavoro e la crescita. Ma nessuno sembra capace di intendere la lingua dell’altro.

L’epoca del liberismo sfrenato è finita da tempo. Sappiamo che, per navigare nel mare della globalizzazione di oggi, è decisiva la capacità di scrivere alleanze, tra attori diversi, in vista di obiettivi comuni da raggiungere nel tempo. È questo il caso di una riforma del mercato del lavoro che, nel rendere più flessibile l’uso della manodopera in ragione delle esigenze delle imprese,  dovrebbe nel contempo riconoscere il contributo fondamentale che proprio il lavoro fornisce, in una società avanzata, alla produzione della ricchezza. Tanto più in un paese dove l’iper-regolamentazione convive con la sregolazione più estrema.



Qui sta il fallimento su cui il governo deve riflettere (e che la giornata di ieri ha reso evidente): non essere riuscito a creare una  cornice in cui tutti possano ritrovarsi, convinti che ognuno ci sta mettendo la sua parte: non solo il lavoro, ma anche le imprese e la pubblica amministrazione.

È questa la chiave per le riforme. Nella situazione storica nella quale ci troviamo, è necessario aiutare a capire che la prosperità economica può essere ricostituita solo combinando diversi ingredienti: l’efficienza sistemica (vedi riforma della Pa), una più equa distribuzione del reddito (vedi la riforma fiscale), una corretta definizione di alcune priorità (scuola, ricerca, etc.), un’efficace lotta contro i furbi (a partire dalla corruzione). Obiettivi che devono combinarsi in un puzzle riconoscibile. E che hanno bisogno di  tempo per essere raggiunti.

Non sono né uno sciopero generale, né degli scontri in piazza che possono fermare un processo di riforma. Ma il governo si interroghi se quello che sta facendo è sufficientemente coerente e comprensibile nel creare condizioni nelle quali i diversi gruppi sociali si possono sentire parte di un progetto comune. Ricordandosi che la distruzione del ceto medio è una strada pericolosa che può mettere a repentaglio la democrazia.

Se c’è una lezione che la crisi porta con sé è questa: non c’è crescita economica se si rinuncia a investire nel futuro. Di fronte ad un paese stremato, le riforme da tutti auspicate hanno bisogno di creare quel consenso che nasce attorno all’idea di un bene comune futuro. In grado di ricucire insieme ciò che da tempo in Italia è separato, e cioè la crescita economica con lo sviluppo delle persone e delle comunità. Fuori da questa logica ci sono solo scontro e degrado. Forse la barbarie.