Il dado è tratto. Il Rubicone è varcato. Matteo Renzi non ha esitato un solo istante. Ha travolto la minoranza democratica, relegandola in un angolo, ma ha anche fatto un passo irreversibile verso una mutazione genetica del suo Pd. Il punto di non ritorno è ormai superato. 

Per i suoi oppositori interni è suonata la campana dell’ultimo giro: se hanno coraggio non possono che andarsene. Se non ne hanno, non possono che chinare il capo. Quello che da oggi in poi sarà impossibile è la guerriglia interna che quotidianamente ha squassato il governo e la maggioranza sin dal momento dell’approdo traumatico dell’allora sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, quasi trecento giorni fa. Quell’ostruzionismo strisciante non sarà più tollerato, al centralismo democratico del Pci si sostituisce un centralismo nel Partito democratico. 



D’Alema non è andato all’assemblea nazionale. Per non farsi insultare, ha spiegato. Bersani è rimasto a casa, colpito dal mal di schiena. Contro Cuperlo, D’Attorre e Fassina il premier segretario ha avuto partita facile. Civati non si è neppure iscritto a parlare. A margine però ha indicato una scadenza precisa: l’elezione del successore di Giorgio Napolitano. Sarà quello il momento in cui si deciderà il futuro del Pd. 



Non ci vorrà molto, un mese, o poco più. Poi a Renzi toccherà l’onere della prima mossa. Dovrà indicare un nome che non spacchi il partito e che, contemporaneamente, risulti votabile anche per Berlusconi, che non poteva scegliere giorno peggiore — almeno nell’ottica di Palazzo Chigi — per dire ciò che tutti gli osservatori sospettano da tempo: dentro il patto del Nazareno oltre alle riforme c’è un metodo condiviso per individuare il futuro inquilino del Quirinale. 

Alla smentita della Serracchiani non crede nessuno dotato di un minimo di ragionevolezza. Ma sarà davvero arduo mettere insieme chi già nell’aprile 2013 voleva scegliere insieme ai 5 Stelle con chi vuol dialogare con Forza Italia e Ncd. Si tratta dello stesso scoglio su cui finì per arenarsi Pierluigi Bersani. I 101 franchi tiratori che impallinarono Prodi, tutti di sicura appartenenza democratica, sono lì a ricordarlo. E nulla vieta che nel segreto dell’urna finiscano per scaricarsi tutti i mal di pancia che Renzi ha tentato di cancellare con la spada di Brenno. 



Guai ai vinti, chi perderà quella battaglia uscirà con le ossa rotte. Dopo quella data la scissione dentro il Pd diventerà sempre più probabile. Per l’ala sinistra l’aria sta diventando sempre più irrespirabile. Lo testimonia l’accusa di Fassina dal palco dell’assemblea nazionale, quella di operare un cambiamento dell’identità del partito, non più punto di riferimento dell’ala sinistra della società, del mondo del lavoro, del sindacato. 

Più vicini all’establishment che alle piazze, alle istanze della troika che alla Cgil: accuse gravissime per chi le formula, offensive per chi le riceve. Eppure qualcosa di vero c’è: il Pd di Renzi non è più quello di Bersani, né quello di Veltroni. Il solco fra le sue anime si allarga sempre di più. E sull’esito di questa partita molto peserà quanto danno farà la battaglia per il Colle. Se i 101 dovessero ripresentarsi, Renzi troverà quel pretesto che in molti lo accusano di cercare per andare alle elezioni anticipate. 

Nell’incertezza i suoi stanno preparando il terreno. Lo lasciano intendere due emendamenti presentanti in questi giorni. Il primo riguarda la legge di stabilità, e stabilisce l’election day a maggio per comuni e regioni, ufficialmente per risparmiare 150 milioni. Unirci le politiche ci vuole un attimo. Il secondo emendamento è alla legge elettorale e indica il Mattarellum. Sino all’entrata in vigore dell’Italicum, prevista per il 1° gennaio 2016, si ritornerebbe ai collegi uninominali, un sistema che fornisce ampie garanzie di successo al Pd renziano. 

Un voto a metà maggio con il Mattarellum costituisce sia una prospettiva concreta, sia una minaccia forte contro avversari interni ed esterni. Anche contro eventuali resistenze di Berlusconi che al momento è ancora a bordo campo, limitato com’è dall’affidamento ai servizi sociali. Dal 15 febbraio sarà assai più libero di muoversi e di pensare alla ricostituzione del centrodestra, un’area politica che oggi assomiglia a un campo bombardato.

La differenza fondamentale con il centrosinistra è che qui non c’è un partito egemone, del 35/40%, ma un arcipelago frastagliato. Qui tutti attendono di sapere quale sarà la legge elettorale per comprendere se valga la pena allearsi. Se si andasse a votare con il Consultellum, ad esempio, ciascuno correrebbe per sé. In caso contrario, si apriranno tanto il nodo dei veti incrociati fra Alfano da una parte e Salvini e Meloni dall’altra, quanto la questione della leadership, con Berlusconi che non ne vuole sapere di farsi da parte. Come al Palio di Siena però, sino alla definizione del successore di Napolitano, ciascun protagonista della politica non farà altro che sgomitare alla ricerca della migliore collocazione per la corsa vera, quella che si aprirà subito dopo il Colle. Fra i canapi la confusione è destinata ad aumentare.