Superato il giorno terribile della scadenza delle tasse locali, che ha messo tutti di fronte all’inferno fiscale scatenato dagli apprendisti stregoni del fisco locale, è possibile spiegare perché si è arrivati fino a questo punto, che segna una delle pagine più oscure della nostra storia fiscale. 

I contribuenti, infatti, si sono trovati a pagare un’imposta che pretende di chiamarsi unica (l’Imposta Unica Comunale!) ma che invece è composta da tre imposte (Imu, Tari e Tasi) e “vanta” quasi 200mila aliquote e 9.700 detrazioni diverse, nonché 1.200 categorizzazioni degli immobili. Ogni Comune ha potuto giocare di fantasia,in certi casi a prevedere complicatissime formule matematiche, in altri a scrivere più di 400 pagine di regolamento, in altri ancora a esentare chi avesse “disabilità superiore al 100 per cento” (?!) o ad abbattere l’aliquota del 50% per chi adotta un cane randagio. 



Questo per la follia di un legislatore statale che, fraintendendo il federalismo fiscale, ha rimesso quasi tutto all’autonomia dei Comuni, senza considerare che in Italia esistono 8.092 Comuni, cui il 70,4% ha meno di 5.000 abitanti e il più piccolo, Pedesina, ne ha 36. Dare a ognuno il potere di fare a modo suo ha scatenato il caos, al punto che i commercialisti e la associazioni di categoria hanno alzato bandiera bianca, avvertendo gli abituali clienti che il calcolo della Iuc può venire a costare più dell’imposta stessa. 



Nulla di tutto questo inferno fiscale c’era nella versione originaria dell’Imu, elaborata dalla Copaff (Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale). Lo scopo dell’imposta era proprio il contrario: era quello di semplificare il farraginoso catalogo delle imposte locali permettendo una nuova tracciabilità dei tributi e una maggiore accountability. L’Imu originaria era peraltro senza aggravio per il contribuente: unificava in un’unica imposta l’Ici e la quota Irpef dovuta in relazione ai redditi fondiari (che era pagata allo Stato). Questo impianto è stata stravolto dal governo Monti nel 2011 quando, per recuperare il gettito necessario a tranquillizzare i mercati, senza alcuna adeguata riflessione, con il dl Salva Italia non solo ha quasi triplicato l’imposta con le rivalutazioni dei valori catastali, ma ne ha anche riservato allo Stato la quota principale. 



Contraddicendo pesantemente ogni logica del federalismo fiscale è stata istituita una enorme compartecipazione statale su un tributo locale. In definitiva, nasceva una nuova imposta “municipale”, che i cittadini hanno visto più che raddoppiata rispetto alla vecchia Ici ma che non ha comportato alcuna risorsa aggiuntiva per i servizi municipali, anzi i Comuni hanno spesso ricevuto addirittura meno. In questo termini sia la tracciabilità del tributo, sia l’accountability sono state gravemente compromesse.

Senza sconvolgere i principi del federalismo fiscale, ben altra razionalità si sarebbe potuta perseguire istituendo un’imposta (o sovra imposta) statale sugli immobili, eventualmente a carattere straordinario: si sarebbe evitato tutto il successivo inferno fiscale. Invece da allora il quadro è stato continuamente peggiorato dai governi successivi: non solo a ognuno degli 8mila comuni è stata data la possibilità di stabilire aliquote e detrazioni, ma continui cambiamenti hanno terremotato la disciplina dell’imposta, che nella sua struttura fondamentale è stata modificata quattro volte in due anni, in cui, inoltre, ben dieci (!) decreti legge sono intervenuti su altri aspetti della disciplina. 

Questo ha devastato le possibilità di programmazione degli Enti locali (lo scorso anno, per effetto dell’incertezza sulle risorse disponibili, il temine assegnato ai Comuni per approvare i bilanci preventivi è stato stabilito al 30 novembre 2013!), colpendo soprattutto la spesa di investimento. E così si è anche compromesso il rapporto con il contribuente, che, parafrasando Gobetti, oggi paga la Iuc bestemmiando il Comune e lo Stato. Non avviene certo così nel federalismo tedesco, dove i tributi che spettano ai Comuni sono scritti in Costituzione: rimangono quindi stabili e protetti dai destabilizzanti interventi di legislatori, come quello italiano, fatti di apprendisti stregoni.