L’Italia del 2015 riuscirà ad avere effettiva contezza delle decisioni dei suoi governanti in modo da indurli a compiere quelle scelte che consentano alla collettività di muoversi non più come un gambero, contraendo e disperdendo il sistema produttivo e nello stesso tempo aumentando la disoccupazione, sprecando le risorse educative e inducendo i giovani migliori ad espatriare? Si riuscirà a far emergere le forze vitali che pure esistono e che sono necessarie per riuscire là dove molti ormai disperano? La nostra democrazia si dimostrerà capace di rappresentare al meglio il bene comune e gli interessi nazionali, oppure continuerà a dare voce soprattutto a fazioni partigiane e ad agire come alternante stampella delle posizioni di forza altrui?
In definitiva, potremo mantenere quelle indispensabili condizioni di libertà, civili, sociali ed economiche, che la nostra Costituzione proclama, indicando gli obiettivi di benessere collettivo che ci siamo dati? Oppure, al contrario, dovremo assoggettarci a sempre più stringenti limiti e vincoli etero-diretti o auto-imposti che si fondano su formule matematiche (quelle relative, ad esempio, all’obiettivo a medio termine, al deficit strutturale, al cosiddetto “output gap”, e così via) costruite in modo quasi esoterico e la cui comprensione sfugge ai cittadini e probabilmente anche alla maggior parte degli addetti ai lavori?
Il bilancio dell’anno che ci accingiamo a salutare senza troppi rimpianti, è deludente sotto molti aspetti. Le promesse si sono accavallate senza sosta, e i risultati tardano ad arrivare. Certo, nessuno ha la bacchetta magica, ma quando gli errori si sommano ad errori, anche l’opinione pubblica che si forgia sulle piattaforme ludiche, può ergersi a golem pericoloso per chiunque. Soprattutto infastidisce — sino al punto da suscitare sgomento — chi nelle istituzioni, pure operando ai più elevati livelli, nega le proprie responsabilità ed attribuisce genericamente alla “politica” le cause dei vizi che emergono dalle indagini giudiziarie, e alla “antipolitica” il sentimento di critica che si diffonde nella cittadinanza verso le istituzioni rappresentative. Nessun titolare di incarichi pubblici — qualunque sia l’ideale in nome del quale li abbia raggiunti — può dirsi estraneo alla china discendente che appare evidente in tanti settori dello Stato. A ben vedere, il refrain della “lotta alla casta” è servito, e continua a servire, per un’importante operazione di perestroika tutta interna al sistema. Ma quando si trasforma in cattiva o disaccorta gestione della res publica nei più vari e diversi ambiti, allora diventa a sua volta cancrena.
Basta un solo esempio, quello delle Province. Si voleva prima abolirle e poi ridurle, ma non si è avuta la forza per fare né l’una né l’altra cosa. Invece di assumersi pubblicamente la responsabilità di tali decisioni e, conseguentemente, il rischio che ne poteva conseguire in termini di consenso, come si è proceduto?
Si è avviato un processo di disimpegno finanziario che, in modo quasi scientifico, sta portando la più parte delle Province (ma non le Città metropolitane, si badi bene) al dissesto finanziario sin dal prossimo anno. A ciò si è affiancato un procedimento di “riordino” delle funzioni provinciali che sta facendo preoccupare qualunque persona di buon senso.
Le funzioni fondamentali — che dovrebbero essere definite e garantite in modo uniforme dallo Stato — non sono state delineate in modo chiaro e compiuto. Nel contempo l’individuazione delle altre funzioni, quelle non fondamentali, è stata rimessa a ciascuna Regione entro tempi strettissimi e mediante una concertazione “dal basso” dall’esito assai incerto. Entro l’ambiziosissimo termine di fine 2014 le Giunte regionali dovrebbero presentare il progetto di legge di riordino delle funzioni. Poche probabilmente lo rispetteranno; forse ci si limiterà a leggi anodine che, con un unico articolo, confermeranno transitoriamente la situazione esistente, così rinviando la soluzione del problema a tempi migliori.
Con il caos alle porte e i dipendenti provinciali in gravissimo stato di fibrillazione, nella legge di stabilità il Governo ha aggiunto l’ultima carta in un gioco che ricorda tristemente quello dell'”uomo nero”: in cambio di un qualche allentamento sul fronte delle procedure di mobilità (come ulteriore premio alla logica della deroga permanente alle regole generali), le Province dovranno subito ridurre della metà la spesa per il personale dipendente, senza sapere che cosa faranno nel prossimo futuro e come riusciranno a farlo con le risorse già drasticamente ridotte. Così, si dice, si realizzeranno le promesse governative sulla riduzione della spesa pubblica delle Province; in verità, si è apparecchiato un tavolo di pietanze tossiche per l’intero sistema delle autonomie locali. Chi, alla fine, resterà con l’asso di bastoni in mano, si troverà espulso dal tavolo; gli altri saranno chiamati dai cittadini ad erogare i servizi pubblici comunque necessari, ovviamente in debito di risorse (finanziarie, organizzative e strumentali) e di personale.
Ma si può procedere alla riforma delle Province, tra l’altro sopprimendo il carattere direttamente elettivo degli organi politici, senza sapere cosa faranno esattamente? E lo Stato può dettare una disposizione di legge che, in nome del coordinamento della finanza pubblica, incide così pesantemente sull’autonomia organizzativa delle Province, che pure è garantita dalla Costituzione, e per di più in una situazione di incertezza (funzionale e finanziaria) che è contraria ad ogni ragionevole principio di efficienza pubblica?
Le reazioni del cosiddetto “popolo di internet” sono evidenti: che il personale amministrativo delle Province paghi, da subito e senza alcun rimpianto, le colpe non solo delle rispettive istituzioni, ma, più in generale, dell’intero Stato!
(1 – continua)