In questi giorni alla Camera dei deputati, in commissione Giustizia, è il discussione il ddl “Disposizioni in materia di accesso del figlio adottato non riconosciuto alla nascita alle informazioni sulle proprie origini e sulla propria identità”. Partendo da otto diverse proposte di legge, presentate dal Pd, FI, SC, Pl, la commissione è arrivata ad un testo unificato che sostanzialmente modifica alcune norme precedenti, a cominciare dal comma 5, articolo 28 della legge 184/1983, nota come legge sulle adozioni e considerata come una delle migliori leggi europee in questo campo.
Proprio per questo vale la pena ricordarne almeno tre passaggi chiave: l’articolo 1 dove, come è noto, si afferma: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia…”; l’articolo 28 che al primo comma afferma: “Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni”, e il comma 5, dove si dice: “L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica…”.
In altri termini, la legge 184 riconosce al minore prima di tutto il diritto a crescere e ad essere educato nella propria famiglia; quando ciò non è possibile gli riconosce il diritto a sapere di essere un figlio adottivo; quindi, una volta raggiunta la maggiore età, gli riconosce il diritto a sapere chi sono i suoi genitori biologici. E’ il punto di equilibrio di una legge tutt’altro che facile, ma che pure in questi anni ha dato ottimi risultati, anche se ancora migliorabili. Genitori adottanti, oggi definiti anche come genitori sociali, e genitori biologici appartengono in modo diverso, ma in modo concreto all’universo affettivo del soggetto adottato, che potrà riconoscersi a titolo diverso negli uni e negli altri, senza poter fare a meno né degli uni né degli altri.
Un modo equilibrato di fare un bilanciamento dei diritti di tutti: del bambino e delle due famiglie a cui in un certo senso il soggetto sa e sente di appartenere e che per questo desidera conoscere. Sa bene infatti che questa è la strada più efficace per comprendere meglio se stesso, le proprie reazioni, alcuni comportamenti e certi atteggiamenti, che spesso sfuggono ad un controllo razionale, perché affondano le loro radici nell’essere profondo di ognuno di noi, in una biografia personale e familiare i cui contorni genetici non possono essere ignorati. Molte volte col trascorrere degli anni le persone sentono di assomigliare sempre più profondamente ai propri genitori, nonostante i tentativi fatti fin dall’età dell’adolescenza per emanciparsi da certi condizionamenti.
Ad un certo punto ci si arrende ad un proprio modo di essere perché si capisce che rappresenta qualcosa che è dentro di noi, tanto nostro come dei nostri genitori biologici, perché affonda le sue radici nel nostro essere strutturale, genetico, che ci appartiene in modo profondamente intimo e connaturale. Smettiamo di ribellarci perché quei modi di fare che ci apparivano come una sovrastruttura imposta dall’esterno, sono in realtà qualcosa che vive dentro di noi, con la stessa forza con cui viveva nei nostri genitori. E cresce la voglia di conoscere e di comprendere chi siano, il desiderio di riconciliarsi con loro e perfino di perdonare fatti e circostanze che ci hanno ferito.
Il problema principale in una cultura come la nostra, profondamente permeata dalla consapevolezza dei diritti individuali e non poche volte sganciata dal senso dei doveri corrispondenti, è quello del bilanciamento dei diritti, che nel caso del ddl in discussione si pone tra il diritto all’anonimato della madre, che dà il figlio in adozione, e il diritto alla conoscenza delle sue origini proprio del figlio. Il ddl pone in primo piano il diritto del figlio a sapere chi sono i suoi genitori biologici e sfida una serie di perplessità che si sono manifestate durante il dibattito parlamentare: “Se passa un simile principio in quante per paura decideranno di non rivolgersi all’ospedale, scegliendo l’aborto preventivo o, peggio ancora, il cassonetto?” Potremmo anche aggiungere, pensando alla fecondazione eterologa e alla donazione degli oociti e degli spermatozoi: se passa questo principio in quanti vorranno donare oociti e spermatozoi, pensando al diritto del bambino a conoscere i propri genitori biologici? Questo non comprometterà ulteriormente la già scarna propensione a donare? Forse, il rischio c’è, ma va risolto sul piano della formazione e della informazione, con una operazione culturale che restituisce alla maternità e al diritto alla vita una pienezza di significato.
Ma il ddl in questione in questo caso specifico non riesce ad essere chiaro e coraggioso fino in fondo e affronta questo ostacolo rimandando la decisione finale al tribunale dei minori. Inserisce infatti un comma, il 7 bis, in cui prevede che il tribunale dei minorenni possa contattare, attraverso i servizi sociali, la madre chiedendole di revocare l’anonimato scelto a suo tempo come condizione vincolante per dare la vita al bambino e darlo quindi in adozione. In questo modo crea un percorso così farraginoso che rende scarsamente esigibile il diritto del bambino a sapere chi era sua madre e ancor più faticoso poter risalire fino a suo padre. E il diritto a sapere diventa un diritto debolissimo rispetto al diritto a non dire e a non far sapere.
La norma, come molte delle norme espresse recentemente dal Parlamento, diventa una norma ambigua e contraddittoria, fin troppo affidata all’interpretazione del giudice, che potrà stabilire come e quando vorrà se i servizi sociali possono o debbono interpellare la madre “anonima”, la quale a sua volta potrà decidere o meno se uscire o no dall’anonimato. Il diritto a sapere e il diritto a non dire restano consegnati all’interpretazione di chi potrà dire di volta in volta cosa è bene e cosa non lo è, senza precisare per chi è bene e per chi non lo è.
In tempi di famiglie variamente allargate in cui convivono figli di diverse unioni e si cerca di volta in volta un equilibrio che per quanto problematico sia pur sempre garanzia dei diritti di tutti, solo questi bambini, nati da madre che in un determinato momento della sua vita, per circostanze che nessuno può e deve giudicare, intende restare nell’anonimato, resteranno esclusi dal circuito familiare che, non dimentichiamolo, comincia pur sempre con i genitori biologici.
Alla legge chiediamo il coraggio di assumere posizioni chiare, che per essere tali esigono un opportuno accompagnamento delle mamme per aiutarle a comprendere le implicazioni delle loro decisioni a breve, medio e lungo termine, nel rispetto dei diritti propri e del bambino. Occorre che nelle mutate circostanze culturali non vivano più la maternità single come uno stigma, ma come un gesto di libertà e di responsabilità verso un bambino che resterà pur sempre loro figlio.