Il disegno di legge costituzionale predisposto dal ministro Quagliariello per la revisione del Titolo V suona una musica originale sul tema delle società partecipate, e la nota dominante è quella della sussidiarietà.
Sulla proliferazione delle società partecipate è proprio urgente cambiare musica: si è ormai di fronte a una delle degenerazioni più evidenti del mondo delle autonomie locali. Comuni e Regioni sono stati martoriati da diversi anni di tagli lineari, non sempre giustificati e proporzionati, che spesso non hanno centrato l’obiettivo, scacciando la spesa buona (servizi e investimenti) e mantenendo quella cattiva. Tra quella cattiva rientra gran parte dell’universo delle partecipate.
Già la relazione sul federalismo fiscale presentata il 30 giugno 2009 al Parlamento denunciava l’anomalia di Comuni Holding caratterizzati dalla progressiva espansione delle società partecipate, fino spesso alla creazione di sconfinate galassie societarie. Sono nati veri e propri Comuni paralleli, “strutturati su molteplici e variamente articolati livelli di partecipazioni, che per dimensione, organi, volumi di personale, stock di capitale investito e/o accumulato, flussi finanziari, hanno appunto assunto presenza pubblica e consistenza uguale o addirittura superiore a quella degli organi dei Comuni stessi”. A Roma, ad esempio il gruppo Acea conta (si veda la scheda allegata) oltre 150 tra società collegate e controllate. All’Atac, che ha accumulato in dieci anni perdite per 1,6 miliardi, il numero degli autisti è di poco superiore a quello del resto del personale, ma la società esternalizza vigilanza, pulizie e riparazioni. Se oltre a queste due si considera anche Ama (l’azienda per i rifiuti) emerge che i tre gruppi contano circa 31 mila dipendenti, che si sommano ai 25 mila dipendenti diretti dell’amministrazione comunale. Mentre in Parlamento si discute sul decreto salva Roma per mettere in sicurezza i conti del Campidoglio ben poco si è sinora riusciti a fare per riportare nella normalità questo fenomeno.
In realtà non si tratta di una particolarità solo di Roma: salvo qualche caso virtuoso, queste aziende sono state spesso gestite più come poltronifici e come gigantesche macchine clientelari, piuttosto che per fornire servizi pubblici essenziali. Anzi, sempre più spesso una gran parte di questa società (il numero complessivo delle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni supera ormai le 7.700 unità e circa il 60% è in perdita) opera in ambiti ben diversi da quelli dell’utilità generale: non mancano affittacamere, allevamenti di animali, attività sportive, lavorazione del legno, attività cimiteriali, commerci vari, ecc. determinando anche un fenomeno di impropria concorrenza al settore privato.
Diversi sono stati i tentativi di razionalizzazione: tutti falliti al punto che il numero società partecipate dalle pubbliche amministrazioni l’anno scorso è aumentato dell’8% (solo il costo del personale supera oggi i 15 miliardi). Complice anche il referendum sulla privatizzazione dell’acqua – che ha prodotto tutt’altro esito rispetto a quello che era stato presentato come l’oggetto referendario – le possibilità di intervento del legislatore ordinario sono spuntate e non resta che disciplinare questo fenomeno a livello costituzionale.
Il ddl presentato da Quagliariello mette in campo l’unica arma efficace al riguardo, un’arma tedesca perché è costruita sul modello delle norme presenti nelle Costituzioni di diversi Länder e nelle relative Gemeindeordnungen che garantiscono le condizioni della c.d. “sussidiarietà rinforzata”: la gestione di un servizio di interesse generale tramite un’impresa pubblica necessita dell’onere di dimostrare che questa possa svolgere il servizio in condizioni di maggior efficacia, economicità, efficienza, rispetto al privato. Nell’attuale art.118 si inserirebbe la previsione per cui Stato, Regioni, Città metropolitane e Comuni «Possono gestire servizi pubblici a mezzo di società partecipate solo qualora il fine pubblico non possa essere conseguito in modo altrettanto adeguato e in condizioni di pari efficienza economica da soggetti privati».
In questa innovativa impostazione, in cui pubblico e privato tendono alla complementarietà, più che essere antagonisti, l’assunzione e la gestione di un servizio da parte dell’ente locale non può pertanto giustificarsi soltanto con il perseguimento di finalità di un generico interesse generale, ma deve piuttosto trovare il suo fondamento in un giudizio di inadeguatezza del mercato e delle regole della libera concorrenza a fornire una determinata prestazione con le caratteristiche richieste dall’Amministrazione. Più precisamente, l’ente locale potrà utilizzare una partecipata solo nel caso in cui lo svolgimento del servizio in regime di concorrenza non sia in grado di assicurare la regolarità, la continuità, l’accessibilità, l’economicità e la qualità dell’erogazione in condizioni di eguaglianza.
Nel contempo il ddl, nelle norme transitorie, interviene anche sull’universo delle società partecipate esistenti, dando copertura costituzionale alla legittimazione statale per intervenire, senza soccombere nelle altrimenti inevitabili questioni di costituzionalità, sul fenomeno in essere rivedendone la disciplina alla luce di una verifica dei principi di efficienza, di pubblica utilità e di economicità nella gestione. Una nota di sussidiarietà rafforzata potrebbe quindi riportare ordine nel mondo delle autonomie locali, anche a vantaggio della credibilità delle amministrazioni stesse.