Altro che terza Repubblica, qui sembra di essere ripiombati nel bel mezzo della prima. Più che la staffetta (riuscita) fra Prodi e D’Alema, lo scontro in atto fra Letta e Renzi a molti sembra ricordare un’altra staffetta (mancata), quella fra Bettino Craxi e Ciriaco de Mita. Anni Ottanta, un millennio fa. Eppure i punti di contatto ci sono: un premier che non ha intenzione di farsi da parte, un rampante che – come il leader Dc – cerca di cumulare il doppio incarico, capo del governo e capo del partito di maggioranza relativa, con il Pd nel ruolo di nuova Balena Bianca. E poi una crisi di governo tutta extraparlamentare, con un scontro fra correnti democratiche assai somigliante a quelli che si svolgevano a Piazza del Gesù.



In fondo Letta e Renzi sono gli ultimi allievi dei politici democristiani, e qualcosa da loro devono aver imparato. Questo è certamente vero per il presidente del Consiglio, che ha incassato per settimane i colpi del suo sfidante, per poi partire con una controffensiva tanto inattesa quanto forse disperata. Potrebbe aver reagito troppo tardi, Enrico Letta. Eppure il suo categorico: “Chi vuole il mio posto lo dica” ha riaperto la partita, e a meno di mediazioni a Renzi non resteranno che due scelte: abbozzare, facendo un passo indietro, oppure andare a una lacerante conta dentro la direzione del Pd. In entrambe i casi rischia di uscirne ridimensionato, anche se gli riuscisse di approdare a Palazzo Chigi.



Letta si è autodefinito uomo delle istituzioni, ha chiesto di portare alla luce del sole la crisi di un governo non votato dagli elettori che potrebbe essere sostituito da un altro della stessa natura, il terzo di una serie aperta da Monti nel 2011. Uno stato di cose che fa dire a Giovanni Toti, nuovo pupillo del Cavaliere, che l’ultimo governo legittimato dal voto popolare rimane quello di Berlusconi 2008. Di sicuro ha rifiutato tutte le sirene che gli ipotizzavano onorevoli vie di fuga come il dicastero degli Esteri, oppure – fra sei mesi – il posto di commissario europeo. Nessun piano B, insomma.



Al termine di una giornata convulsa, un renziano di ferro come Ernesto Carbone accusa apertamente il premier di voler esclusivamente tirare a campare e di essere il responsabile dello stallo delle riforme. Sembra di sentire esponenti di partiti diversi, invece tutto si gioca all’interno del Partito democratico. 

Nel programma per il rilancio dell’azione dell’esecutivo, che Letta presenta dopo il colloquio con Renzi, titoli impegnativi, come lavoro, formazione, fisco, amministrazione pubblica, impresa, investimenti, territorio, cultura e turismo, legalità e innovazione. 

Il titolo doveva essere “Impegno 2014”, ma il riferimento temporale è sparito, si è passati a un “Impegno Italia”, che evoca uno scenario assai più lungo, sino forse alla fine naturale della legislatura, nel 2018. Ipotesi fantasiosa, agli occhi dei renziani, che non hanno visto nel dossier alcun segno di discontinuità. Per i lettiani, però, se non sarà una base programmatica, di sicuro costituirà un corposo lascito politico, perché ritengono la partita non ancora del tutto chiusa.

A favore di Letta rimane il sostegno di Napolitano, che da Lisbona risponde “non diciamo sciocchezze” a chi gli evoca l’ipotesi di un imminente scioglimento delle Camere. Alcuni retroscena descrivono il capo dello Stato molto contrariato dal suo recentissimo incontro con Renzi, anche se il suo realismo politico gli imporrebbe di dar corso a un cambio di linea da parte del Pd, se cioè ci fosse un chiaro orientamento a favore della staffetta a palazzo Chigi. 

Davanti al premier c’è la scelta delicata, se essere presente o meno alla direzione democratica che deciderà del suo destino. Rischia l’umiliazione, ma è lui stesso ad aver sfidato il sindaco a parlare chiaro, e quindi potrebbe decidere di andare. Di sicuro, sulla base dei deliberati della riunione concorderà con Napolitano il da farsi. In casa democratica i numeri sono tutti dalla parte del segretario vincitore delle primarie di dicembre, d’altra parte la controffensiva lettiana è stata pesante. Ma rinculare dall’assalto a Palazzo Chigi per Renzi e i suoi è diventato difficile, forse troppo. Mica possono dire: “Scusate, abbiamo scherzato”.