Come era successo per il passaggio dal governo di Silvio Berlusconi a quello di Mario Monti, sono i comunicati del Quirinale a dettare passi e motivi dell’avvicendarsi degli inquilini di Palazzo Chigi, traducendo nel freddo linguaggio delle istituzioni i frenetici e roventi sommovimenti della politica. Nel caso precedente, lo sfiduciato Berlusconi aveva dovuto arrendersi obtorto collo alle ragioni della politica economica internazionale e all’altalenante spread che minacciava di affossare il Paese. Oggi è la politica di partito a farla da padrone, con un Pd che – novello parlamento – “sfiducia” un premier per imporne un altro e, con lui, forse anche una coalizione ritoccata, almeno nelle sue proporzioni.  



Come già le stelle, intanto, anche Paese e il suo diretto rappresentante, il Parlamento, stanno a guardare, un Parlamento che pure era stato chiamato, come prevede la Costituzione, a votare la fiducia alle larghe intese, poi ridottesi a medie intese per l’estromissione di Berlusconi e la spaccatura di Forza Italia. Oggi, invece, la forza soverchiante della politica sembra sufficiente a  riavvolgere il nastro e a riportare le procedure per i cambi di governo ai tempi della prima Repubblica, quando erano le segreterie di partito a decidere e i parlamentari venivano informati dalla stampa di quanto stava avvenendo (o era avvenuto) nelle segrete stanze del palazzo. 



Il perché di tutto questo non sfugge a nessuno e il comunicato del Quirinale ben lo spiega quando afferma che – in ogni caso – il premier uscente non era disponibile a rimettersi in gioco; vano sarebbe stato quindi “parlamentarizzare” la crisi (cioè rimandare ad opera del presidente della Repubblica il presidente del Consiglio dimissionario in Parlamento perché spieghi i motivi della crisi e venga ufficialmente sfiduciato con voto parlamentare a scrutinio palese), visto che non vi era più nulla da decidere, mentre il rispetto delle convenzioni costituzionali avrebbe solo rallentato la risoluzione della crisi stessa. Inoltre, come è stato detto, costringere Letta a presentarsi in Parlamento sarebbe stata una sorta di umiliazione, lo smacco di vedere i suoi – a voto palese – fare il più classico dei voltafaccia.



Di tutto questo i giornali ci hanno spiegato in lungo e in largo i motivi, su cui non è il caso di dilungarsi ulteriormente se non per dire che, ancora una volta, questo governo nulla avrebbe realizzato e che era quindi necessario cambiare rotta, e cambiarla subito. Niente riforme costituzionali, niente legge elettorale, niente provvedimenti per l’economia e il lavoro, niente interventi sulla pubblica amministrazione. Niente, insomma: una accusa senza contraddittorio, un niet senza motivazioni. 

Perché dunque andare in Parlamento? Andare il Parlamento sarebbe stato un passo formale, la razionalizzazione di una situazione irrazionale e non razionalizzabile. Il no senza appello non ha bisogno di spiegazioni. Che piaccia o non piaccia, oggi non serve spiegare, non serve un confronto razionale in Parlamento, uno scontro aperto e trasparente tra le ragioni degli uni e le ragioni degli altri, tra maggioranza e opposizione – ormai confuse le une con le altre − perché il Paese sappia  come mai ad un premier si sostituisce un altro e il Parlamento possa attestare con un suo voto che, in effetti, il programma di governo su cui si era data la fiducia  non è stato rispettato. Senza che nessuno ci metta la faccia, le istituzioni rappresentative cedono alla politica e ad essa le logiche istituzionali e costituzionali si inchinano, come si inchinò il Concordia. Speriamo almeno di non assistere ad un altro naufragio.