Le istituzioni hanno un proprio linguaggio simbolico, che è certamente più espressivo e significativo di quello ufficiale. Al pari delle persone, esse non si esprimono solo in via formale (dichiarazioni, deliberazioni, ecc.); piuttosto, palesano i propri orientamenti anche in via informale, secondo una serie di atti simbolici giuridicamente irrilevanti – dissenso, protesta, sberleffo… – e, tuttavia, politicamente significativi, in quanto capaci di far trapelare ben altri orientamenti.



Quanto è accaduto alla Camera dei deputati in occasione del conferimento della fiducia al nuovo Governo, per l’appunto, assume una simile connotazione: sul piano formale, la maggioranza parlamentare ha manifestato al neopresidente la prevista e dovuta adesione al programma governativo: sul piano simbolico, tuttavia, essa ha espresso ben altri apprezzamenti. L’applauso prolungato, partecipato e condiviso che l’Aula ha tributato all’abbraccio fra Letta e Bersani, proprio nel momento del massimo riconoscimento istituzionale reso al beneficiario della disfatta politica dei due, riveste una duplice valenza, umana e politica.



Da un primo punto di vista, quell’applauso manifesta il disagio (se non proprio il dissenso) collettivo nei riguardi dell’artefice di una crisi di governo extraparlamentare del tutto inedita; una crisi le cui ragioni sostanziali restano opache, e la cui soluzione ha comportato la successione nella carica di presidente del Consiglio di due personalità provenienti dal medesimo partito e afferenti alla medesima (o quasi) compagine di governo. È accaduto come se in occasione di un matrimonio gli invitati riservassero il proprio applauso non già alla sposa, bensì alla storica e risalente fidanzata dello sposo, quasi a sottolineare le ragioni di stima e di comprensione rivolte esclusivamente verso la seconda e giammai verso la prima.



Da un secondo punto di vista, quell’applauso manifesta la tensione politica e l’incertezza democratica derivanti dalla nascita del nuovo governo. Come ha lucidamente evidenziato Rino Formica su queste pagine, questo esprime una doppia maggioranza: l’una palese e governativa, realizzata fra i partiti superstiti delle precedenti larghe intese e chiamata a svolgere “le faccende domestiche”, vale a dire le riforme essenziali per sostenere un sistema sociale e civile in fermento e senza orizzonti; l’altra “in sonno” e parlamentare, realizzata fra i leader dei due principali poli politici (Renzi e Berlusconi) e finalizzata a concludere le riforme istituzionali ed elettorali nel senso già previamente concordato. Il guaio è, tuttavia, che tali riforme si muovono in una prospettiva tutt’altro che democratica, sicché è nella relativa consapevolezza parlamentare che va inquadrato lo sfregio dell’applauso rivolto dall’Aula non già al neo premier, bensì ai relativi avversari di partito. 

Di per sé l’esistenza di una doppia maggioranza, governativa e parlamentare, non costituisce una novità nella storia repubblicana. Per un lungo periodo della prima Repubblica essa fu sperimentata con successo e a beneficio del Paese. Ai tempi della guerra fredda e dell’esclusione del Pci dall’esecutivo, i governi di coalizione erano politicamente deboli in quanto dipendenti dall’indirizzo politico espresso dalla maggioranza parlamentare, nella quale confluiva lo stesso Pci. L’esistenza di un tale sistema consociativo fu tale da assicurare piena dignità e partecipazione politica a un’opposizione diversamente senza prospettive, pur assommando nel suo insieme almeno il 40% dell’elettorato; di conseguenza, fu tale da consentire la realizzazione delle riforme fondamentali e, dunque, da assicurare lo sviluppo economico e la pace sociale. Ciò, tuttavia, poté avvenire in ragione della credibilità e dell’autorevolezza che i relativi artefici furono capaci di riscuotere in Aula fra i colleghi parlamentari. Quell’accordo politico, in definitiva, non era imposto dall’alto; al contrario, pur se dettato dalle contingenze geopolitiche, traeva legittimazione e agibilità dal basso, dalla vita parlamentare e dall’attività dei rappresentanti eletti dal popolo direttamente, senza liste bloccate e secondo un sistema proporzionale.

Non così accade nel presente. L’accordo riformatore Renzi-Berlusconi è subito dai componenti della maggioranza parlamentare in senso remissivo e senza adeguate ragioni politiche e costituzionali. Esso s’impone su una vita parlamentare già frustrata dagli ordini di scuderia partitica, dalle tentate o consumate defezioni e dalle conseguenti ritorsioni. Soprattutto, esso rende plateale lo scollamento realizzatosi fra le istanze democratiche di cui quelle forze politiche erano tentativamente portatrici e le odierne risoluzioni, ben distanti dal rispetto della volontà degli elettori. Ed è in un tale limbo, sospeso fra la dignità istituzionale dell’Aula e la mortificante riduzione delle dinamiche parlamentari, che l’applauso alla coppia Letta-Bersani ha manifestato la propria forza simbolica; quasi una messa in mora nei confronti delle determinazioni del nuovo premier. Quasi uno sberleffo nei riguardi dei suoi proclami.