I dietrologi più incalliti, quelli in servizio permanente effettivo, sono entrati immediatamente in azione e gridano al miracoloso “effetto Renzi”. Lo scenario che hanno disegnato è da leccarsi i baffi: l’implosione del Movimento 5 Stelle è merito della discesa in campo del neo premier, che adesso potrà sbarcare Alfano e i suoi, e governare grazie ai voti dei fuoriusciti dal partito grillino.



Per quanto affascinante, questa lettura contiene due errori di fondo. Il primo, annettere al cambio della guardia a Palazzo Chigi un valore dirompente superiore a quello che realmente ha avuto sin qui. Il fatto è troppo vicino nel tempo per poter essere messo in relazione stretta con il big bang a 5 Stelle, certi processi politici hanno bisogno di tempo per maturare, anche nei tempi sincopati che la politica oggi conosce e che ha portato in due settimane al regolamento dei conti in casa Pd, con l’avvicendamento e il benservito a Enrico Letta. 



Il secondo errore di fondo contenuto nell’ipotesi che sia tutto merito di Renzi è che si possa ragionare con i grillini (o ex) con le categorie tradizionali della politica: una scissione, senatori e deputati che costituiscono nuovi gruppi parlamentari pronti a entrare un minuto dopo nel gioco delle alleanze parlamentari. Peccato che i grillini non siano né alfaniani (che con Nuovo Centrodestra proprio questa operazione hanno fatto), finiani di Futuro e Libertà, e neppure leghisti del 1994, che tentarono (senza riuscirci) di dar vita a una Lega alternativa a quella di Bossi.

I grillini no, i grillini sono diversi. Sono apolitici per davvero, e lo dimostra il fatto che gran parte dei dissidenti che stanno abbandonando in queste ore il movimento (volontariamente, oppure perché espulsi a furor di web) hanno manifestato l’intenzione di dimettersi dal Parlamento e tornare privati cittadini. Qualcuno pare abbia già formalizzato questo passo, che smentirebbe clamorosamente chi vi vede il coronamento della strategia di Renzi di attenzione al Movimento 5 Stelle.



Al contrario, se c’è qualcuno che può dirsi soddisfatto dell’implosione del mondo grillino, questi è Pierluigi Bersani, convinto che il muro eretto dal comico genovese non potesse durare in eterno. Peccato che quel muro abbia resistito troppo per l’ex segretario democratico, appena ricomparso sulla scena politica dopo la malattia che l’ha colpito a inizio gennaio. 

Quale che sia la genesi della crisi, per il Movimento 5 Stelle questo è il momento più difficile. Vengono al pettine tutti i nodi che volutamente Grillo e Casaleggio hanno lasciato insoluti. Il primo da scontare è il meccanismo di selezione delle candidature, che ha favorito la fedeltà rispetto alle competenze. 

Si sono evitate infiltrazioni da parte di arrivisti, si è portato in Parlamento un pattuglione numeroso, ma incapace di incidere sulle istituzioni, al di là di battaglie di superficie come la riduzione dei costi della politica. Battaglia meritoria, ma dalla portata limitatissima sui conti pubblici.

Il secondo nodo che viene al pettine è la totale assenza di democrazia interna, come hanno lamentato molti degli espulsi (e degli espellendi): tutte le decisioni vengono prese dal duo Grillo-Casaleggio e trasmesse attraverso i due proconsoli per la comunicazione, Claudio Messora al Senato e Nicola Biondo alla Camera. La linea politica la decidono loro, non gli eletti. E dal momento che a palazzo Madama si è acceso uno scontro assai più sanguinoso rispetto a Montecitorio, con la metà dei componenti del gruppo (54 a inizio legislatura contro i 107 deputati), tutto fa pensare che il protagonismo di Messora ci abbia messo del suo nell’esasperare il clima. L’episodio di un falco come Giarrusso che denuncia due mozioni di sfiducia presentate a suo nome senza consultarlo è esemplare.

Difficile oggi capire se si potrà costituire un contenitore che raccolga i fuoriusciti, gli indizi fanno propendere per l’ipotesi opposta. Mancano leader, strutture e spazio politico. Grillo appare ancora troppo forte nel presidiare con metodi autoritari un Movimento che detiene ancora il (quasi) monopolio del dissenso e dell’antipolitica. Ma la scissione del 26 febbraio impone al Movimento un profondo esame di coscienza, sia sulle proprie regole interne, sia sulla strategia di rifiutare qualunque accordo con i partiti tradizionali. Un esame di coscienza da condurre in fretta, prima che gli elettori si accorgano del pasticcio e provvedano con il voto, magari alle europee di fine maggio, a ridimensionare ambizioni eccessive.