Mercoledì il presidente della Repubblica ha ribadito la necessità di riformare il Titolo V della Costituzione. Ieri il presidente della Corte costituzionale, Gaetano Silvestri, nel presentare la relazione sulla giurisprudenza del 2013 ha segnalato “un problema generale di squilibrio del sistema regionale italiano”. Il presidente Renzi poco prima, nel suo discorso programmatico, aveva evidenziato la stessa urgenza, denunciando un policentrismo anarchico che alimenta un localismo dove il diritto di veto blocca qualunque decisione.
Si tratta di una emblematica successione di posizioni che dimostra quanto ormai da tempo sostengo: l’attuale assetto del “federalismo all’italiana” è esattamente il contrario della partecipazione basata sul principio di sussidiarietà, che presuppone invece il riconoscimento di un bene comune e di un’azione coordinata per perseguirlo. Le attuali disfunzioni sono evidenti: a distanza di più di dieci anni dalla riforma del 2001 emerge un’eccessiva incertezza del diritto e un’esasperata frammentazione delle competenze, che dovrebbe essere superata a favore di un decentramento legislativo più equilibrato e più funzionale allo sviluppo economico e sociale.
Oggi su una qualsiasi procedura si incrociano troppe competenze costituzionali. In generale questa frammentazione, con la difficoltà a mettere d’accordo i soggetti coinvolti, produce costi enormi: in Italia il costo per un km di rete ferroviaria ha raggiunto 50 ml di euro, contro i 13 della Francia e i 15 della Spagna. La differenza dei costi non è giustificabile solo con la conformazione orografica del territorio italiano. I costi per l’energia in Italia risultano superiori del 30% rispetto a quelli di altri Paesi europei: la causa è un sistema amministrativo polverizzato che ha bloccato gli investimenti nell’energia.
Si pensi ancora alla gestione del trasporto pubblico locale, emblema di un sistematico scaricamento di responsabilità fra i vari livelli di governo coinvolti. La materia «grandi reti di trasporto» è stata infatti collocata tra le competenze concorrenti tra Stato e Regioni, ma il finanziamento del trasporto pubblico locale avviene ancora tramite un trasferimento vincolato statale alle regioni in base alla spesa storica, che poi lo girano, con lo stesso criterio, a province e comuni, che a loro volta pagano le aziende di trasporto.
In sintesi: la possibilità di pervenire a una razionalizzazione della spesa appare lontana e se in un Comune (come è successo a Napoli) gli autobus si fermano per mancanza di gasolio, il cittadino non sa a quale porta deve bussare per lamentarsi. Eppure lo scopo del decentramento dovrebbe essere proprio quello di permettere di raggiungere più facilmente, se le cose vanno male, la porta cui bussare (l’accountabilty richiamata da Renzi).
In questo sistema, invece, non si sa a quale porta bussare; i virtuosi sono stati sistematicamente penalizzati con tagli lineari; i cittadini ne hanno subito l’effetto vedendo scomparire o rincarare i servizi; la pressione fiscale è aumentata perché gli sprechi degli enti inefficienti sono stati spesso ripianati (con le imposte di tutti i contribuenti italiani) senza adottare adeguate di commissariamento.
La revisione del Titolo V è quindi un compito urgente e impegnativo, che potrà inaugurare una nuova stagione del nostro assetto delle autonomie. Superando la retorica del federalismo e la pratica del centralismo che ha caratterizzato gli ultimi anni, il nuovo Titolo V dovrà porre le condizioni (perché poi decisivi sono sempre gli uomini) per un effettivo ruolo di coordinamento dello Stato (che è cosa diversa dal centralismo) e per una riaffermazione del principio di responsabilità (che è cosa diversa dal localismo), dove le esperienze virtuose siano valorizzate e quelle inefficienti, senza troppi sconti, riallineate.