L’accordo sulle riforme fra Berlusconi e Renzi ha smosso le acque della politica italiana, e ha costretto tutti a misurarsi con la novità. Chi più, chi meno, ogni protagonista si è messo a correre. C’è Casini che abbandona il centro, e i grillini che strepitano perché temono di finire marginalizzati, tanto per fare due esempi. C’è qualcuno, però che rischia seriamente di perdere questo treno, e questo qualcuno è Enrico Letta con il suo governo. Il suo ritardo è stato certificato impietosamente dal leader degli industriali, Giorgio Squinzi, che ha chiesto un chiaro cambio di passo. In caso contrario, ha aggiunto, meglio andare a votare.
Non per colpe tutte sue, Letta ha visto rallentare la marcia verso il patto di coalizione che avrebbe voluto esibire come un trofeo il 29 gennaio a Bruxelles. Davanti ai vertici europei è arrivato a mani vuote, anzi con un pezzo in meno, dopo le dimissioni di uno dei suoi ministri, Nunzia De Girolamo, un atto che prelude a un rimpasto ormai non più rinviabile, ma che invece continua a slittare. Di questo passo il premier rischia di impantanarsi, e forse è quello che tanto a Renzi, quanto a Berlusconi piacerebbe che accadesse.
Letta contesta il pessimismo di Squinzi, ma è evidente la sua difficoltà a chiudere l’operazione rilancio, stretto fra l’attivismo del nuovo segretario del suo partito e la sponda che gli sta dando Berlusconi. Dall’intesa hanno entrambi da guadagnare, anche se il Cavaliere ha mostrato di non gradire troppo gli aggiustamenti all’accordo sull’Italicum cui è stato costretto dalla pressione dei piccoli partiti, spalleggiati dal Quirinale. Su un punto sia lui che Renzi concordano: votare oggi con il “consultellum” sarebbe inutile, quanto non addirittura controproducente, dal momento che il sistema proporzionale puro scaturito dalla sentenza della Corte costituzionale sul “porcellum” porterebbe automaticamente a perpetuare le larghe intese.
Una legge elettorale che certifichi un vincitore è quindi necessaria, le riforme auspicabili, ma non proprio sicure. Berlusconi è però molto attivo nel ricostruire un’alleanza in grado di vincere. Dice di non voler scoprire le sue carte, ma di avere un piano “folle” per raggiungere il 38 per cento al primo turno. Solo due mesi fa questo obiettivo sembrava impensabile, oggi tale ragionamento non è più una bestemmia. I sondaggi certificano che un centrodestra ampio è in grado di vincere, nonostante qualche mal di pancia di troppo dentro la stessa Forza Italia, con Fitto che ritiene improbabile l’alleanza con Alfano, mentre Brunetta e Toti vengono mandati in avanscoperta per dare il bentornato a casa a Pierferdinando Casini, il più lesto a scendere dalla barchetta centrista, che ormai fa acqua da tutte le parti ed è destinata a essere la prima vittima dell’Italicum. Alla Lega poi Berlusconi offre la clausola di salvaguardia per i partiti con forte radicamento territoriale, senza che nemmeno il Carroccio debba sporcarsi le mani nel chiederlo.
Dettaglio non trascurabile, l’assenza di un candidato premier, visto che allo stato Berlusconi è fuori gioco. Ma in un anno si può provvedere anche a quello, come pure a risolvere alcuni problemini aperti, come ad esempio riunire la litigiosa galassia di destra in un unico soggetto politico.
Sul versante opposto questi 12-14 mesi sono il tempo necessario a Renzi per prendere in mano del tutto il Pd e ricostruire a sua volta la tela di un’alleanza di sinistra, a partire da Sel, a oggi non meno teorica di quella di centrodestra. E a questo punto resta da capire se questo tempo possa essere gestito da un Letta bis, oppure non sia meglio azzerare tutto, e coinvolgere in questo azzeramento anche il Quirinale. Fantapolitica, probabilmente, ma a pensar male – diceva uno che la sapeva lunga – si fa peccato, però ci s’indovina. E contando sul fatto che Napolitano è stato chiaro nel non dirsi disponibile ad avallare qualunque scenario, tra i palazzi romani c’è anche chi ragiona sulla possibilità che sia questo parlamento a eleggere il successore, che a quel punto sarebbe il garante del patto fra Silvio e Matteo. In troppi, però, sembrano al lavoro affinché questo patto deragli prima ancora di riuscire a prendere velocità. Perché rimanga fermo in stazione davanti a un inesorabile segnale rosso.