La svolta di Pierferdinando Casini non genericamente verso il centro-destra ma più specificamente verso Silvio Berlusconi e Forza Italia ha suscitato grande sorpresa. Sembra annullare, infatti, all’improvviso e definitivamente il centrismo di cui proprio Casini è apparso per un ventennio il più deciso sostenitore. Marco Follini ha parlato di una svolta “più triste che furba”, l’espressione di qualcosa che finisce più che l’inizio di un nuovo cammino. 



È un giudizio che sembra trovare conferma nelle parole sferzanti – seppure successivamente corrette – di Silvio Berlusconi e nella stampa berlusconiana ben lieta di gettare fango sull’ex nemico. Ma il disprezzo con cui oggi viene trattato non può cancellare una storia che si è distinta con motivazioni valide dalle derive del berlusconismo e del leghismo. Sul fronte opposto, invece, molti si affrettano a dichiarare che non c’è nessun motivo di sorpresa: il centrismo di Casini avrebbe sempre coperto una fondamentale scelta di destra, appena mascherata da parole ingannevoli. 



Ma è un giudizio ingiusto e non veritiero. Le convinzioni centriste di Casini, infatti, non sono state tutte inconsistenti. E la sua scelta attuale contraddice battaglie importanti, come quella iniziata in modo solitario nel 2008 per uscire dalla palude della seconda Repubblica, poi culminata con le dimissioni di Berlusconi nel novembre 2011. Oggi però prevale in lui un errore che gli ha nuociuto già nei primi anni novanta: quello di credere che la politica italiana sia sul punto di ridursi ad un bipolarismo “totalitario” (ma dopo il 1994, però, le cose sono andate diversamente ed è questa una lezione che non va dimenticata). 



La svolta di oggi, in altre parole, svela la fragilità delle sue convinzioni centriste. Casini è stato un centrista sincero ma non convinto, un erede diretto della tradizione democristiana ma anche un prigioniero senza speranza di un orizzonte post-democristiano. Non è stato troppo centrista, lo è stato troppo poco. O, meglio, è stato un centrista da seconda Repubblica e cioè un centrista residuale, che ha cercato di sfruttare gli spazi lasciati liberi dal bipolarismo, che ha navigato in modo sinuoso per non finire schiacciato da uno dei due blocchi… Le sue origini nella Dc non devono ingannare: si è mosso secondo le logiche della seconda Repubblica, con un’abilità tattica che ha sviluppato più di ogni altra cosa perché gli sembrava l’unica scelta possibile. 

Oggi si dà per vinto, ma questa sconfitta può avere significati diversi. È possibile che segni la dissoluzione definitiva degli ultimi residui della prima Repubblica, sopravvissuti in modo subalterno nella seconda. Ci sono motivi anzitutto anagrafici per pensarlo: tutti i maggiori protagonisti di quella stagione non ci sono più e la cultura democristiana non ha più peso. 

Ma è possibile anche una lettura diversa, non necessariamente incompatibile con la precedente: la svolta di Casini segna la fine del centrismo da seconda Repubblica e, da adesso in poi, si può essere centristi solo per convinzione e non più in modo solo tattico. 

Che  sia possibile oggi essere centristi per convinzione lo dimostra paradossalmente proprio la contraddizione palese tra il metodo e il merito della riforma elettorale che dovrebbe azzerare i partiti di centro. Nel merito, infatti, il forte impianto bipolare della proposta sembra aprire la strada ad un’aspra contesa tra i due poli. Ma per quanto riguarda il metodo, l’accordo tra Renzi e Berlusconi ha rappresentato una convergenza che ha un chiaro segno centrista, assai lontano dal bipolarismo muscolare degli ultimi venti anni. È un po’ come dire: mettiamoci oggi d’accordo amichevolmente su come distruggerci domani selvaggiamente. 

Delle due, l’una: o prevarrà il sapore centrista suggerito dal metodo o lo scontro selvaggio evocato dal merito. C’è da augurarsi che il metodo prevalga sul merito, che al bipolarismo conflittuale si sostituisca un bipolarismo consensuale. Sarebbe una vittoria centrista. Il centro, escluso dai principi bipolari cui oggi si piega persino Casini, possiede una forza di attrazione di cui la politica italiana non può fare a meno.